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Fecero salire Miki e suo padre su una macchina della polizia. Loro obbedirono docili, senza avere la forza di chiedere dove volessero portarli. Mentre l'auto sfrecciava per le vie della città, papà cercava di parlare con i poliziotti seduti davanti.

"Per favore, è possibile sapere qualcosa di mia figlia Rose? Sta bene? L'avete rintracciata?"

I poliziotti rimanevano chiusi nel mutismo più perfetto. Entrambi indossavano delle mascherine sanitarie.

Quanto a Miki, non riusciva a pensare. Continuava ad avere davanti agli occhi quello che era successo a casa. I poliziotti che sparavano a Rose. Quella donna che urlava: vi ho detto che la voglio viva! Ma soprattutto, quel fumo nero che usciva dal corpo di Rose e travolgeva i poliziotti. Cosa era diventata sua sorella?

Miki si disse che aveva fatto bene a chiamare le autorità. Avrebbero aiutato Rose. Avrebbero trovato una cura per la tecnopeste, o per qualsiasi malattia avesse Rose. Miki ricordò quelle parole assurde: non è una malattia. È un dio.

"Sono sicuro che andrà tutto bene", le disse suo padre. "Rose non ha precedenti. Tutto si risolverà." Sorrideva incerto. Cercava di essere rassicurante.

Miki provò un moto di rabbia. Come poteva essere così buono e gentile, dopo quello che lei aveva detto davanti a lui? Quell'uomo non è nostro padre. Miki si sarebbe sentita più a suo agio se si fosse arrabbiato, o se le avesse tirato un ceffone. No, il suo vero padre era diverso. Aveva trasformato casa loro in un campo minato. Miki era abituata a convivere con una tensione continua. Il minimo pretesto, e giù botte. Era così che suo padre si prendeva cura di loro. Per lui provava un misto di odio, rispetto e paura. Era pur sempre suo padre.

L'auto uscì dalla città. Si ritrovarono nel deserto grigio oltre la periferia. Davanti e dietro di loro viaggiavano altre auto della polizia. Era una piccola carovana su una strada sottile in mezzo al nulla. Il grigio del cielo diventava sempre più scuro: il sole doveva essere al tramonto. Miki cominciava ad avere paura.

"Ehi, dove ci volete portare?" gridò ai poliziotti. "Non abbiamo fatto niente!"

"Controllo sanitario" si limitò a dire il poliziotto alla guida. La sua voce era attutita dalla mascherina.

"E allora perché non siamo su un'ambulanza?"

"Perché se hai gli stessi sintomi di tua sorella, abbiamo l'ordine di spararti" rispose il poliziotto.

Si fermarono davanti a un basso edificio, perso nel deserto ormai buio. Le luci che venivano dall'interno proiettavano lunghi fantasmi nel vuoto tutto intorno.

Entrarono. Miki e suo padre erano sempre tenuti sotto tiro dai poliziotti. Una donna con un camice bianco e una lunga coda di capelli neri li accolse.

"Sono la dottoressa Lorenz, e mi occuperò di voi" annunciò. "Il dottor Lower avrebbe voluto seguire di persona i vostri esami, ma purtroppo non potrà essere presente". Poi aggiunse qualcosa a bassa voce. A Miki sembrò che avesse detto: "per vostra fortuna".

Li separarono. Portarono suo padre in un'altra ala dell'edificio. Lui la salutò agitando la mano, sussurrandole "coraggio!". Miki strinse i denti. Doveva essere per forza sempre così affettuoso?

Per prima cosa le prelevarono del sangue. Poi la misero in un tubo di acciaio, dove rimase al buio vari minuti. Infine le applicarono vari elettrodi alla testa. Da un laboratorio all'altro, due poliziotti col fucile a impulsi spianato la seguivano costantemente.

"Se sono malata come mia sorella, quegli affari non vi serviranno a nulla" disse lei sprezzante.

Dopo gli esami la portarono in una stanza inquietante, composta da varie celle dalle pareti trasparenti. La chiusero in una delle celle, dicendole di aspettare. Lei protestò. L'unica giustificazione che ottenne fu: "Misure sanitarie. Per la sicurezza di tutti."

Nella cella c'era solo una branda. Nel pavimento si apriva un grosso buco, di cui Miki non capì la funzione.

Si sedette sulla branda. Il trascorrere del tempo la costrinse a pensare. Forse avrebbe dovuto parlare con Rose, prima di chiamare le autorità. Ma Rose era stata quasi sempre fuori casa, negli ultimi giorni. Rose a volte si comportava come se fosse sua madre, a volta spariva e basta. E stavolta l'aveva lasciata da sola a cercare di capire cosa fosse successo a papà. Miki aveva dovuto chiamare aiuto. Non era colpa sua.

Il passare delle ore diventò opprimente. Miki cominciò a stringere forte i pugni, per vedere se sui palmi rimaneva il segno rosso delle unghie.

Alla fine la prelevarono dalla cella e la portarono in uno studio. Al di là della scrivania, la attendeva la donna con la coda.

"Dov'è Rose? L'avete catturata o ve l'ha fatta sotto il naso?" le chiese Miki con aria di sfida.

La donna sorrise. "Non preoccuparti. Di tua sorella si sta occupando il dottor Lower".

Le fece una marea di domande, a volte ripetendole più volte. Lei rispose che non sapeva niente. No, non so chi è quel ragazzo. Ho visto quella foto in televisione, ma non l'ho mai incontrato. No, non so perché mio padre non si comporta più come prima. No, non so cos'è Mercury.

La riportarono in cella. Si sedette di nuovo sulla branda, dondolandosi piano avanti e indietro per scaricare la tensione. In cosa ci hai cacciati Rose, pensò. Perché aveva cercato di fuggire dalla polizia? Certo, la polizia l'aveva chiamata Miki. Ma lei credeva di fare bene. Come faceva a sapere che sarebbe successo tutto quel casino?

Passò forse un'altra ora. Poi la riportarono nello studio. Questa volta c'era anche suo padre.

La donna con la coda esaminava un tablet sulla sua scrivania.

"Gli esami non mostrano alcuna anomalia. Siete essere umani normali, relativamente sani. Certo, lei signor Almeida ha il fegato molto ingrossato".

"Vi prego" disse papà. "Possiamo sapere dov'è Rose? Che malattia ha esattamente? Possiamo almeno sapere se è ancora viva?"

"State tranquilli" disse la donna affabilmente. "Rose non è più un vostro problema. Potete tornare a casa."

I poliziotti li ricondussero in città. Arrivarono a casa alle prime luci dell'alba. La porta d'ingresso del loro appartamento aveva ancora la serratura rotta. Il corridoio portava i segni dello scontro fra Rose e i poliziotti. In molti punti l'intonaco delle pareti era stato sbriciolato. Per terra, fra i frammenti di vetro, giaceva la riproduzione di Gauguin.

Rose naturalmente non c'era. Miki aveva sperato irrazionalmente che avessero mandato a casa anche lei.

"È colpa mia", disse suo padre.

"Come può essere colpa tua?" ribatté Miki. Non poteva sopportare che si offrisse come capro espiatorio.

Lui si sedette pesantemente sulla sua poltrona.

"Sono un ubriacone violento. E Rose, non so come... ha dovuto farmi qualcosa. Ha dovuto curarmi."

"Lo hai sempre saputo che era stata Rose?". Miki strinse di nuovo i pugni, accogliendo il dolore nelle sue mani.

"In un certo senso sì. Non lo ammettevo perché era assurdo, ma lo sapevo. Se fossi stato un uomo buono, tutto questo non sarebbe successo. E quindi è colpa mia."

"Guarda cosa ti ha fatto!" urlò Miki. "Non sei più te stesso! È tutta colpa di Rose! Ed è anche colpa mia! Non dovevo chiamare quei bastardi!" Miki cercò di trattenersi, ma non riuscì. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime.

"Miki, hai fatto quello che credevi giusto. Non tormentarti" disse lui.

Dopo un attimo di silenzio, si alzò dalla poltrona e aggiunse: "So anche che è permanente. Il mio cambiamento, voglio dire. Non tornerò mai quello di prima. Quindi, Miki, è possibile che io non sia più davvero tuo padre. Ma non potresti volere un po' di bene anche a me?"

La guardò con un mezzo sorriso incerto.

Miki strinse forte le labbra, mentre le lacrime le rigavano il volto. Pensò a che era l'uomo più stupido del mondo, e pensò anche di dirglielo. Poi cedette completamente. Corse da lui e lo abbracciò forte. Disse solo: "scusami. Scusami, papà."

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