35

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Dopo quattro giorni, Clash era diventato quasi amico dei suoi compagni di cella. Sasha era quello più grosso, ma era anche il buono del gruppo. Certo, le sue nocche sbucciate non erano molto rassicuranti. Da quello che aveva capito Clash, erano dovute ai pestaggi che Sasha aveva eseguito per conto degli strozzini locali. Una sorta di infortunio professionale, quindi. Eppure, nulla poteva rivelare in Sasha una qualche indole violenta. Passava il tempo a leggere vecchi libri di teologia offerti dalla biblioteca del carcere. Kristof era un tipo più complicato. Non che avesse mai dato segni di perdere il controllo, ma a Clash non piaceva la sua abitudine di giocherellare continuamente con un coltellino a serramanico. A volte, durante la notte, Clash veniva svegliato dal ritmico scattare della lama. Ma la cosa davvero inquietante, era che nessuna delle guardie mostrasse la minima intenzione di sequestrare a Kristof il suo giocattolo. Era una forma di indulgenza o avevano paura di lui?

Non era stato semplice per Clash spiegare ai suoi genitori perché era stato arrestato. Nella breve telefonata che i poliziotti gli avevano concesso non era riuscito a raccontare molto. Il silenzio di suo padre, dall'alto capo del telefono, era stata la cosa più dura. Clash sentiva di avere perso in un solo attimo la patente del bravo ragazzo. Ma in ogni caso nessuno gli avrebbe chiesto di esibirla, nel luogo in cui era finito.

L'imputazione formale era sedizione. "L'accusa più pericolosa" gli spiegò una volta Sasha. "Se hai ucciso qualcuno e lo dimostrano, ti fai trent'anni di galera, e chiusa lì" disse facendo spallucce. "Ma essere sediziosi è una condizione dell'anima. Tu righi dritto, e loro penseranno che sei ribelle dentro. È un'ombra che ti porterai dietro tutta la vita."

Clash non faticava a credere a Sasha. E va bene, che fosse pure. Benvenuto al nuovo Clash, pericoloso criminale. Non aveva fatto nulla di male, ma era finito lo stesso in prigione. Quale migliore prova di quanto fosse inutile, su quello stupido pianeta, spezzarsi la schiena di lavoro? Nelle notti insonni Clash vagheggiava sul suo nuovo futuro da fuorilegge. Avrebbe assunto la guida della rivolta contro Hendricks. Sarebbe diventato il ribelle che tutti si aspettavano. Per un po' si perdeva fantasticando. Ma subito dopo veniva preso dallo sconforto, mentre si girava fra le coperte ruvide che gli irritavano la pelle, e respirava l'acre odore di chiuso della cella. Cosa ne sarebbe stato dei suoi genitori? Il governo avrebbe avuto sospetti anche su di loro?

E tutto per colpa di quella ragazzina svitata. Clash non era riuscito a fermarla prima che afferrasse la pistola di quel poliziotto. Dopo l'arresto erano stati separati subito. Durante i primi estenuanti interrogatori, gli avevano chiesto in che rapporti fosse con lei. Non volevano credere che fossero solo conoscenti. Era vero che facevano parte di un complotto per diffondere la tecnopeste su Sieben? Clash negava, negava, negava.

Un giorno, una giovane donna con una lunga coda di cavallo entrò nella cella scortata da due poliziotti. Aveva con sé un kit medico in una valigetta. Strinse un laccio emostatico attorno al braccio di Clash e gli prelevò il sangue. Non gli chiese il permesso, né gli fece firmare alcuna liberatoria. Clash pensò che era meglio non protestare.

Passarono altri tre giorni. Clash si stava quasi abituando alla vita della prigione. Ma sapeva che prima o poi doveva attendersi una qualche tipo di sviluppo, non necessariamente gradevole.

Accadde tutto nel cuore della notte. Due guardie lo svegliarono bruscamente. Lo portarono nella saletta degli interrogatori. Un uomo che non aveva mai visto lo stava già attendendo. Sfogliava un fascicolo. Si presentò come l'ispettore capo della sezione investigativa.

"Ti conviene smettere di prenderci in giro" disse. "La tua complice ci ha detto tutto. Volevate arrivare a Hendrikcs per friggergli il cervello."

Clash cercò di pensare velocemente, nonostante il sonno e la stanchezza. Se una settimana in prigione per lui non era stata una passeggiata, chissà cosa doveva essere stata per Miki. Forse l'avevano messa sotto torchio. In fondo lei era la sorella di Rose. Potevano averle fatto confessare qualsiasi cosa.

O forse era una solo un trucco per incastrarlo. Clash decise di puntare tutto su questa possibilità. "Non può avere detto questo" rispose con tutta la tranquillità di cui fu capace. "Ve lo siete inventati voi. Oppure è impazzita."

L'ispettore capo aggrottò le sopracciglia. Tornò a sfogliare pigramente il fascicolo. Dopo circa un minuto di silenzio, annunciò seccamente: "Domani alle 8 davanti al giudice." Poi ordinò alle guardie: "riportate questo stronzo in cella".

Clash cercò di riprendere a dormire, ma riuscì solo a precipitare in un sonno popolato da incubi e pensieri oscuri. Ebbe una visione confusa di Rose: aveva un labbro spaccato e sanguinante, e voleva baciarlo. Protendeva le braccia verso di lui, e dalle sue mani usciva del fumo nero che, Clash ne era sicuro, l'avrebbe ucciso appena avesse toccato la sua pelle. Clash si svegliò. Udì il sommesso ticchettare del coltello di Kristof. Si girò nella branda e si riaddormentò, ma presto un altro sogno lo visitò. Era tornato a casa. Ma i suoi genitori, invece di salutarlo, lo guardavano duramente e scuotevano la testa in silenzio. Non c'era niente da dire, era già tutto deciso. Clash non poteva più stare lì. Doveva andarsene per sempre.

Tornarono a svegliarlo. A Clash sembrò che fosse ancora il cuore della notte, ma le guardie gli dissero di prepararsi in fretta per l'udienza. Lo condussero lungo corridoi interminabili fino ad arrivare a una saletta piena di piccoli sedili di legno vuoti, schierati davanti a una grande tavolo in marmo, dietro il quale era seduto un vecchietto decrepito. Gli ordinarono di sedersi in prima fila.

Il vecchietto dietro il tavolo scrutò dubbioso Clash per un attimo, poi tornò a inforcare gli occhiali per leggere alcune carte che aveva davanti.

Per circa dieci minuti non accadde assolutamente nulla. Infine entrò trafelato un uomo con la barba incolta e vistose occhiaie scure. Si sedette accanto a Clash. "Queste udienze alle otto del mattino mi uccideranno" gli sussurrò a bassa voce.

"Avvocato Hempsey. Ancora una volta in ritardo" commentò acidamente il vecchietto. L'avvocato bofonchiò delle scuse.

"Come si dichiara l'imputato rispetto alle accuse?" declamò il vecchietto.

"Esattamente... quali accuse?" chiese Clash.

L'avvocato gli fece cenno di tacere. "Lascia fare a me", sussurrò.

Si alzò. Prese alcune scartoffie da una valigetta. Si schiarì la voce. "L'imputato si dichiara colpevole per quanto riguarda la prima accusa. Ma respinge fermamente l'imputazione di oltraggio a pubblico ufficiale."

Il vecchietto annotò qualcosa su un foglio. L'avvocato si sedette soddisfatto. "Dovremmo riuscire a evitarti la prigione" disse sottovoce a Clash.

"E la prima accusa?" protestò Clash.

"Oh, è sedizione aggravata da metodi violenti. Ma da quella non può difenderti neppure il padre eterno, ragazzo."

"L'imputato vuole dire qualcosa in sua difesa?" chiese il vecchietto.

Clash si alzò in piedi. Avrebbe spiegato tutto. Non era possibile che non capissero. Intervennero le guardie. Lo presero per le spalle e lo costrinsero a sedersi di nuovo. L'avvocato fece nuovamente cenno a Clash di tacere, annuendo per rassicurarlo. Poi prese la parola.

"Signor giudice, il qui presente... uhm, Hamilton, è un bravo ragazzo incensurato. Un lavoratore indefesso, che offre con entusiasmo le proprie energie e il proprio vigore fisico al servizio dell'azienda dei genitori. Vorrà allora considerare con benevolenza, vostro onore, il suo errore giovanile. Nel momento in cui la salute della nostra comunità è stata intaccata dalla malattia, egli non ha potuto che subirne l'influenza malefica. Ebbene, vostro onore, la strega della peste ha una sorella. Costei, benché non infettata dal male, sembra tuttavia partecipe della stessa perversione. Se la sorella mirava a diffondere morte e malattia, ella preferiva spargere il seme della ribellione e dell'affronto all'autorità costituita. Fu lei a coinvolgere l'Hamilton nella folle protesta contro il nostro stimato governatore. Fu lei, l'ammaliatrice, a indurre un rilassamento nei costumi in questo giovane, che altrimenti..."

Il vecchietto fece un cenno spazientito con la mano. Al suo comando l'avvocato si zittì subito, e tornò a sedersi.

Clash aveva la nausea. La stanchezza e la mancanza di sonno gli davano le vertigini. Avrebbe voluto alzarsi e dare un pugno all'avvocato, per come aveva parlato di Rose e Miki. Erano sue amiche. Tutti loro, anche lui, non cercavano altro che una vita che valesse la pena di vivere. Perché li stavano processando, invece di aiutarli?

Il giudice continuò a scribacchiare in silenzio per circa dieci minuti. Poi si schiarì la voce. Disse: "Espulsione dal pianeta, con esecuzione immediata. Tolgo la seduta."

Qualcosa dentro Clash si rifiutò di comprendere il significato di quelle parole. L'avvocato esibì un sorriso a trentadue denti. "Visto?" disse. "Niente carcere!"

"Ma espulsione significa che..."

"Dovrai lasciare il pianeta, no?"

"Cosa? Per quanto tempo?"

L'avvocato sembrava stupito dalla lentezza di Clash. "Per sempre, ragazzo. Da oggi su Sieben sei una persona indesiderata. Il primo posto su un cargo in partenza è il tuo."

Clash faticava ad abbracciare l'enormità di quella novità. "Ma i miei genitori... io devo aiutarli col negozio!" protestò.

L'avvocato si alzò. "Amico, ti ho appena evitato venti anni di galera. Prego." Poi si rivolse urlando alle guardie. "È possibile avere un caffè decente in questo posto?"


La prima scarica elettrica esplose nel suo petto. Il dolore la costrinse ad aprire gli occhi. Di nuovo, si era risvegliata in quella strana capsula trasparente. Forse era una bara di cristallo. Forse era morta. Sarebbe stato coerente con il fatto che non respirava. Non che la cosa le importasse molto: avrebbe voluto solo richiudere gli occhi per sempre. Ma qualcuno non era d'accordo.

Un uomo con una maschera bianca reggeva con le mani due piastre collegate a dei fili. Le appoggiò sul petto di lei. "Ancora", disse. Questa volta la scossa di dolore sembrò diffondersi in cerca di qualcosa. Il cuore di Rose fu costretto a contrarsi, nonostante le fitte terribili. I suoi polmoni si strinsero, poi come molle tornarono a espandersi. La vita si impossessò di nuovo di lei.

La presero sollevandola per le gambe e per le braccia e la sistemarono sulla sedia a rotelle. Rose sentì qualcosa scattare attorno al suo collo. Ricordò la puntura che l'ultima volta l'aveva fatta tornare nel mondo dei sogni. Qualcuno le afferrò i capelli e la costrinse ad alzare la testa. Una voce le rimbombò nelle orecchie

"Ora d'aria con la dottoressa Marley. Questa volta riga dritto."

Rose provò rabbia. Perché disturbavano il suo sonno? Perché la trattavano come un sacco da portare in giro come volevano? Ebbe un vago ricordo di qualcuno che le proibiva di arrabbiarsi, e questo la fece infuriare ancora di più. Tentò di liberare le nano. Ma qualcosa dentro di lei non funzionò. Non accadde nulla. Spinsero la sedia a rotelle, e davanti alla vista offuscata di Rose cominciarono a scorrere i corridoi oscuri della Vanguardia.

La dottoressa Marley era nervosa. Aveva preteso e ottenuto che a Rose fosse concessa un'altra ora d'aria, nonostante il disastro della settimana prima. Ora Marley attendeva che conducessero la ragazza nella saletta dei colloqui. Un nuovo vetro diamante era stato montato per separarla da lei. In più, al vetro era stata sovrapposta una pesante grata di acciaio. Quel luogo assomigliava sempre più a una prigione.

Per fortuna Lower questa volta non c'era. Non aveva voluto neppure partecipare. Per lui la ragazza era solo una cavia da laboratorio, era evidente. Marley invece avrebbe voluto ottenere la collaborazione di Rose. Ma non sarebbe stato facile.

La porta d'acciaio della saletta si aprì. Dietro la grata di acciaio, Marley scorse Rose sulla sedia a rotelle spinta dai soldati.

"Ciao Rose" disse Marley. Pensò di aggiungere un come stai?, ma si accorse che sarebbe stata una domanda ridicola. La ragazza sembrava messa ancora peggio della prima volta. Era pallida come fantasma, e teneva la testa reclinata di lato, come se non avesse la forza di sollevarla.

"Ti ho fatto mettere sul tavolo un bicchiere d'acqua" continuò Marley. "E se vuoi, c'è anche un'altra fetta di torta."

Rose guardò con occhi privi di vita il piatto con la torta glassata di rosso e il bicchiere d'acqua. Poi alzò faticosamente il braccio e cercò di avvicinare l'acqua. Le sue dita prive di forza non riuscivano a stringersi attorno al bicchiere.

"Non potete aiutarla?" chiese Marley ai soldati nella saletta. Nessuno si mosse. Stavano tutti a distanza di sicurezza da Rose, imbracciando il fucile.

La ragazza, dopo circa un minuto di tentativi, riuscì a trascinare il bicchiere fino alla sua bocca. Bevve un sorso d'acqua, poi tossì. Rivolse il suo sguardo gelido a Marley. Disse con voce stentorea: "Non riesco a liberare le nano. Cosa mi avete fatto?"

Marley scosse la testa. "Le nano sono ancora dentro di te. Sei solo troppo debole per liberarle."

"Allora rimettetemi dentro" disse Rose. "Nei miei incubi almeno sono potente."

"Sono le visioni indotte da Mercury, vero? L'ultima volta mi hai detto che ti impartisce degli insegnamenti."

"Mi spinge a liberarmi da me stessa" disse Rose con un filo di voce.

Marley annuì. "La sua missione è liberare le scimmie. Vuole farci perdere la nostra identità. Ti sottopone a degli esercizi? Interviene sulla tua mente in qualche modo? Rose?"

La ragazza tacque per alcuni secondi. Poi, con una voce appena udibile disse: "Mi ha liberata dalla mia paura, ed è stato bellissimo. Ma vuole liberarmi anche dalla mia rabbia, e non voglio."

Marley ringraziò il cosmo. Uno spiraglio. Uno spiraglio su cui lavorare.

"Rose, non devi rinunciare alla tua rabbia. Come non devi rinunciare alla tua felicità, alla tua tristezza, alla tua capacità di amare."

Rose la fissò per alcuni secondi, poi disse: "Hai detto che l'hai creato tu. E che lui ha ucciso tuo figlio. È vero?"

Il cuore di Marley perse un colpo. Brava Rose, dritta al punto in cui fa più male. Ormai Marley non poteva tirarsi indietro. Doveva mettersi in gioco.

"Un tempo sognavo di creare una mente perfetta. Dotata di una benevolenza sconfinata nei confronti di tutti gli esseri viventi. Una mente priva di turbamenti, che riposasse in una pace assoluta."

Rose sgranò gli occhi. Ciondolò faticosamente la testa per annuire. "È lui. È così. Porterà la sua pace a tutte le scimmie. Cancellerà il male da ogni mente."

"Rose, noi lo possiamo combattere insieme."

"E tuo figlio?" chiese Rose spietata.

Marley cercò di non mostrare il suo dolore. Ma la sua voce tremò quando rispose.

"Mio figlio Adam è stato il primo ad avere quello che hai tu. È stato il primo ospite."

Rose tacque ancora, per un momento che sembrò interminabile. Poi chiuse gli occhi e disse: "Hai scatenato la pace di un dio su di noi. Ci hai condannati tutti."

Marley si sentì improvvisamente svuotata di energia e di parole. Rose aveva ragione. Marley aveva creato Mercury. Con quale diritto chiamava gli altri alla guerra contro di lui?

No, non poteva finire così. Doveva fare qualcosa. Marley si alzò e camminò decisa verso l'ingresso della saletta. I soldati presenti erano distratti, e si accorsero di lei troppo tardi. Marley digitò sulla tastiera il codice di sicurezza segreto universale dell'Unione. La porta si aprì.

Qualcosa nella mente di Marley le urlò di non farlo. Lei non ascoltò. Entrò nella saletta. Si inginocchiò accanto a Rose. Girò la sua sedia a rotelle verso di lei. Poi prese le sue mani. Quelle mani che avrebbero potuto cambiare per sempre le sinapsi di Marley, ora si trovavano, pallidissime, fra le sue. Marley le sentiva fredde come neve.

"Rose, perdonami. È vero, è tutta colpa mia" disse Marley. Rose la guardava stupefatta.

"Ti giuro che farò di tutto per riparare ai miei errori", continuò Marley. "Farò di tutto per salvarti. Non lascerò che Mercury ti prenda. Ti prego, permettimi di aiutarti".

Strinse le sue mani. Era troppo tempo che a quella ragazza mancava un semplice contatto fisico. Marley leggeva nei suoi occhi la sorpresa. Sì, Rose, è così che noi esseri umani comunichiamo. Tu sei ancora una di noi.

Marley sentì le mani di Rose restituirle la stretta. Aveva funzionato. In un attimo, la tensione di Marley si sciolse in un sollievo infinito.

Poi nelle sue orecchie esplose un grido. "Codice rosso! Ripeto, codice rosso!".

Marley si girò verso i soldati. "Non sta succedendo niente!" protestò. "Non sta liberando le nano!"

Udì uno scatto. Sul collare di Rose si accese una luce rossa. Un ago era penetrato nel collo della ragazza. Rose si afflosciò priva di conoscenza sulla sedia a rotelle.

Marley si sentì afferrare per le braccia. La sollevarono e la allontanarono da Rose. Portarono via in fretta la sedia a rotelle. La dottoressa imprecò. Si scosse per liberarsi dalla stretta dei soldati.

Nella saletta entrò Lower. Era trafelato. Doveva essere arrivato di corsa dritto dal laboratorio. Guardò furente Marley. "Dottoressa, è impazzita?" sbottò. "E se le avesse riscritto il cervello?"

"Ho solo cercato di stabilire un contatto umano" rispose con rabbia Marley. "Evidentemente in questo lager non è possibile."

Lower scosse la testa. "Dottoressa," continuò, "capisco che per... la storia personale che la lega a Mercury, lei si senta in dovere di fare la crocerossina. Ebbene, quel mostro dice che Mercury non è una malattia. E ha ragione. Siamo di fronte a un potere che sfida la nostra comprensione."

"Lower, è una ragazza, non un mostro."

"Per quanto mi riguarda, quella ragazza è l'arma più potente della galassia. E lei la tratta come se fosse una qualsiasi adolescente disadattata."

"Ma è proprio quello che è!" gridò Marley. "Una ragazza in difficoltà!"

"Forse. Ma lei è una scienziata, dottoressa. Non sua madre."

Marley guardò Lower con tutto il disprezzo di cui fu capace. "Mi ascolti bene. Ora entrerò in quel laboratorio, e non ne uscirò finché non avrò trovato la cura che distruggerà Mercury. Io salverò Rose a ogni costo."

"Vuole davvero uccidere un dio per salvare una ragazza?" chiese Lower sprezzante. "Che spreco, dottoressa. Che spreco." Uscì dalla saletta scuotendo la testa.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro