Capitolo XII

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng


Capitolo XII

ՑՑՑ



       Anche se la sua vita ha subito un improvviso mutamento nelle ultime settimane, Joshua non riesce a dimenticare cosa in realtà sia stata fino ad ora e, seduto sul sedile dell'autobus – lontano dal finestrino, lasciando a Robin il privilegio di guardare le palazzine di Paddington al di fuori e le sue tipiche decorazioni floreali sofisticatissime – si chiude nel suo silenzio. La sua mente rimugina lentamente, come una ruota che gira spinta dalla corrente di un fiumiciattolo, e ripercorre gli ultimi eventi sul quale, però, non riesce a vedere nessun progresso. È vero ha – hanno avuto il coraggio di parlare con un morto, lui e Robin, ma alla fine si tratta ancora di un caso isolato che non vuol dire assolutamente niente. Non ci sono state evoluzioni, solo una minuscola variante, quella di non aver fatto dietro front, una volta incontrata Janine, e scappare via come ha sempre fatto.

   Non può nemmeno dire di aver risolto il caso, perché di fatto non è successo. Non hanno niente, in mano, se non un disegno fatto dalla signora Soria e la supposizione di un prete che ha usato il manuale di D&D per aiutarli. Sembra ancora assurdo che quella conversazione con padre Richard sia avvenuta e, per quanto stravagante sia stata, in quel contesto confuso, ha dannatamente senso.

   Un ricettacolo che contiene uno spirito morto, che gli permette di abitare ancora la terra, ma limita la sua libertà relegandolo in uno spazio di pochi metri quadrati. È assurdo, e allo stesso tempo pare quasi anomalo. Joshua non ha mai visto nulla del genere, perché se le cose stanno come ha detto padre Richard, ovvero che Janine ha scelto volontariamente di restare in questo mondo, assicurandosi di farlo incatenando la sua anima a qualcosa, allora tutto cambia. Nessuno di quelli che ha incontrato nel suo cammino parevano voler restare, sembravano sempre tutti spaesati, in attesa di passare oltre. Lei no. Anzi, gli ha dato l'impressione di odiare quella solitudine e di voler, in qualche modo, far ancora parte di quella vita, pur non potendo più.

   «Pensi che Janine sia sepolta in qualche cimitero nei paraggi?», chiede Robin, improvvisamente e, quando Joshua si volta a guardarlo, lo vede col capo chino sul suo cellulare, alla ricerca di campi santi londinesi.

   Robin sta facendo i compiti, lui sta solo rimuginando e questo non lo tira su per niente.

   «Potrebbe. Il nome non ci aiuta, sembra quasi sia straniera. Magari non è qui in inghilterra.»

   «Però parla benissimo inglese, no?», risponde Robin, e Joshua tace per un attimo, mentre con la coda dell'occhio vede che il finestrino si è riempito di piccole gocce d'acqua. Sta di nuovo piovendo.

   «Sì, questo è vero», ammette, poi torna a guardare di fronte a sé. Un uomo altissimo e dalla pelle scura lo scruta dall'altra parte dell'autobus. Lo guarda, stringe una mano al tubo giallo per reggersi. Quando quello gira la testa verso il finestrino, Joshua vede che ha un buco sul collo. Profondo, macchiato di sangue e necrosi. Chiude gli occhi, respira forte.

   Odia le folle, odia l'ora di punta. Loro sono sempre lì, quando c'è troppa gente e non riesce a non distinguerli dai vivi.

   «Potremmo provare a cercare una lapide con il suo nome. Dopotutto non deve essere così comune, qui a Londra. Magari potremmo iniziare con il cimitero di Highgate

   «Ho l'impressione che possa essere un'impresa titanica, cercare tutte le Janine che sono state seppellite a Highgate, ben sapendo poi com'è grande. In più», inizia Joshua. Guarda di nuovo l'uomo col buco sul collo. Chiude di nuovo gli occhi, quando quello gli restituisce ancora lo sguardo, e scuote la testa: «Un cimitero, per quelli come noi, non è esattamente un posto dove passare del tempo.»

   «È l'unica soluzione che mi è venuta in mente. Dopotutto ci sarà una foto, sulla lapide, e se la vediamo così come è morta, non sarà difficile riconoscerla.»

   «Forse dovremmo fare una cosa per volta, Robin. Per esempio capire se davvero la sua anima è incatenata a qualcosa e poi decidere poi cosa fare.»

   «Portarsi avanti con il lavoro non è una cattiva strategia, però. Dopotutto il piano è quello di liberarla.»

   «Sì», risponde solo, e quando Robin si volta e i loro occhi si incrociano, Joshua abbassa subito lo sguardo, perché non vuole vedere altro, per oggi. Non vuole incontrare il riflesso dell'entità che gli vive dietro e che può vedere solo attraverso gli specchi. Si guarda le ginocchia piegate sul sedile, e stringe i pugni sulle cosce. Non dice altro, perché non può dire altro. Avvicinarsi alla verità significa capire anche cosa vuole quello spirito da lui e, di conseguenza, vuol dire liberarsi dal dono, ma non riesce a vivere quella prospettiva con serenità, perché di fatto non riesce a fidarsi di qualcuno – o, in questo caso, qualcosa che non gli ispira fiducia. È convinto che nessuno riuscirebbe a provarne, dopotutto, verso una creatura come quella: lo ha chiuso in una bara, lo ha quasi ucciso, gli ha proiettato davanti l'immagine di sé stesso morto, lo ha quasi costretto ad accettare, con un ricatto, eppure gli ha fatto anche una promessa e gli ha detto «Non sono io il cattivo, qui», ma è la frase che meno rispecchia il suo contenuto che Joshua abbia mai sentito in vita sua.

   Sospira. C'è troppa morte, nella sua vita. Pure se non è nessuno che conosce o qualcuno che gli è vicino. La morte lo perseguita, è sempre presente, e si domanda se, una volta liberato dal dono, smetterà anche di pensarci. Di pensare al grande enigma che è, e cosa significa per lui, che la vede camminare ogni giorno di fronte a sé.

   «Joshua?», lo chiama Robin, e lui non si volta. Ha notato una piccola nota di preoccupazione, nella sua voce, e cerca di sorridere.

   «Non è niente, sono solo scosso. Sono successe tante cose in questi giorni, sembra passata un'eternità.»

   «Sì», risponde Robin e lo sente rilassare le spalle, forse rassicurato da quella frase. Fa scrocchiare il collo, piegando la testa a destra e poi a sinistra. «Sembra passata una vita. Ma almeno mi rassicura il fatto che forse abbiamo una soluzione tra le mani. Non è molto, ma in casi come questi tutto fa brodo.»

   «Sono d'accordo.» Joshua poggia la testa sullo schienale. Ha un principio di emicrania che gli si sta insinuando nella cervice. «Domani andremo in biblioteca a scoprire qualcosa. Magari anche Janine, nel frattempo, sta cercando di ricordare.»

   «Domani?», chiede Robin, confuso.

   «Sì, domani. Non vorrai andarci ora?»

   «Le abbiamo promesso che saremmo tornati da lei, in qualunque caso. Con o senza una soluzione!», esclama il giovane.

   Joshua si volta a guardarlo e non sa cosa dire. Vorrebbe dirgli che gli dispiace – e effettivamente è così, ma non è assolutamente dell'umore per andare in biblioteca stasera. Ha visto abbastanza, ha bisogno di non pensare al regno dei morti almeno per qualche ora.

   «Mi dispiace, ma stasera non posso. Ho un impegno e domani mattina lavoro. Se ne riparlerà domani nel pomeriggio.»

   «Ma ha detto...»

   «Lo so, cosa ho detto. E so anche cosa ha detto lei. Non sto dicendo che non ci andremo, sto solo dicendo che non lo faremo ora. Non me la sento, okay? Non è facile gestire tutto questo, in una sola giornata. In più...» Si blocca. L'uomo con il buco sul collo è ancora lì, e lo guarda, e non dice niente. Non ha altro che occhi spenti puntati su di lui. Non è come Janine, non ha forza vitale da restituirgli, quando lo guarda. Joshua non riesce a togliersi dalla mente quello sguardo spento e il resto, intorno a lui, ha un suono ovattato

   Robin gli stringe una mano intorno al braccio; Joshua sussulta, si risveglia e si volta a guardarlo. I loro sguardi si incrociano di nuovo e non riesce a distogliere lo sguardo.

   «Lo vedo anche io. Ci fissa da quando siamo saliti. Sa che lo vediamo, è certo. Però lo vedo anche io», mormora Robin, a bassa voce, e Joshua torna a guardare l'uomo di fronte a loro, e le parole dell'altro, forse, erano atte a tranquillizzarlo, a dirgli che non è più solo in quell'incubo e che, qualunque cosa veda, c'è. Non è scontato credere che quella possa essere una rassicurazione, per quanto condividano un dramma del genere, ma c'è qualcosa che Joshua invidia in Robin, ed è l'ottimismo.

   Quando lo ha conosciuto gli è sembrato tutt'altro che questo. Cupo e sulle sue, parlava a monosillabi, sembrava solo un personaggio figo interpretato da un manichino senza anima, invece da quando hanno iniziato a collaborare per quella causa, Joshua ha capito che Robin non è altro che un insicuro, che sta cercando – a differenza sua, di cambiare le cose. Qualcosa che lui, fino ad ora, non ha mai provato a fare, scappando da quel destino, sperando ogni giorno che, senza muoversi di un millimetro, le cose potessero cambiare.

   «Forse vuole qualcosa?», chiede, e lancia un'occhiata all'uomo, che ora ha di nuovo distolto lo sguardo verso il finestrino.

   «O forse no. La verità è che sta a noi scoprirlo.»

   Joshua resta con lo sguardo fisso sul morto, poi stringe forte la mano sul tubo di ferro e si fa leva per alzarsi. Robin, vicino a lui, si muove di scatto e lo segue. Si accostano all'uomo, e Joshua sa di tremare molto più di quanto lo stia facendo Robin. Non ha il coraggio di guardarlo. È altissimo, un gigante, ha paura possa fargli del male, ma allo stesso tempo non si sente minacciato come dovrebbe.

   «Hai bisogno di aiuto?», chiede, a bassissima voce, fingendo di rivolgersi a Robin, per non dare nell'occhio e sembrare un matto che parla da solo.

   Il fantasma sembra stupito, così tanto che alza le spalle, preso alla sprovvista e resta in quella posizione di difesa per qualche secondo.

   «Ho solo bisogno di trovare casa mia. Sai come posso arrivare a Brixton?»

   Joshua alza lo sguardo sulla scritta scorrevole dell'autobus a due piani che hanno preso e, vedendo l'Horniman Museum come prossima fermata, sorride.

   «Sei fortunato», dice, ma la voce gli trema. Alza la testa per guardarlo e, a vederlo bene, non è così spaventoso come credeva. «Tra due fermate sarai a casa. Sei sull'autobus giusto.»

   L'uomo gli rivolge un sorriso, e per quanto sia così gigantesco e massiccio, ha la stessa aria di gratitudine di un bambino che ha perso i genitori e ora li ha ritrovati.

   «Mi chiamo Yishmael, e ti sono molto grato per avermi aiutato», dice quello. La voce profonda non ha un tono cupo, è solo cavernosa, decisamente calzante nel rappresentare il suo aspetto. Vorrebbe chiedergli come e quando è morto, cosa gli è successo e perché lo hanno assalito al collo. Perché lo hanno ucciso o... perché si è ucciso?

   Non lo fa. Ha paura che qualcuno possa sentire e allora lascia stare. Rimane solo con la testa alzata per guardarlo, e cerca di sorridere, anche se non ha smesso di tremare un solo istante. Dal di fuori, per fortuna, deve sembrare intento a consultare il percorso dell'autobus raffigurato sopra al finestrino.

   «Sono Joshua», risponde solo, poi l'autobus frena e lui e Robin scendono, senza mai smettere di girarsi verso Yishmael, come se potesse sparire da un momento all'altro. Come se, alla fine, quell'aiuto non fosse servito a niente di niente.

   Quando poi il mezzo riparte, Robin gli poggia una mano sulla spalla. Joshua non ha mai amato particolarmente il contatto fisico – o, più sinceramente, non è abituato, ma qualcosa in quel tocco lo rassicura. Sa che l'altro ha capito il disagio che ha provato, e sa che lo ha capito davvero. Non è solo un tentativo, Robin può capire e questo... questo a volte lo rassicura e lo spaventa allo stesso tempo.

   Quando lui troverà il modo di uscire da quella situazione, che ne sarà di quel ragazzo?

•••

   Si salutano non appena prendono la metropolitana in direzioni diverse; si danno appuntamento al giorno seguente, anche se Robin ha provato ad insistere nell'andare quella sera stessa, solo che Joshua ha già un impegno con Fred e, forse, lo sta usando come scusa per non affrontare immediatamente quel passo. Perché Joshua lo sa, che se troveranno davvero il contenitore dell'anima di Janine – sempre che sia questa la soluzione – le cose inizieranno a farsi più complicate, per quanto Robin gli abbia detto il contrario.

   Solo che Joshua non ha mai saputo gestire la sua vita, e non se la sente di provare a scoprire come gestire quella di un morto. Eppure, la vita, lo ha messo di fronte a una scelta che implica il dover mettere le sue priorità per un attimo in standby, se vuole liberarsi del dono.

   Pensa a Yishmael, pensa al sorriso di gratitudine, pensa al fatto che forse ora ha trovato la sua casa ed è riuscito ad andare oltre. Grazie a lui? Forse. Qualcun altro avrebbe potuto fare lo stesso? Può darsi, ma improbabile. Certo non impossibile.

   Sospira, mentre raggiunge lo Slainte, per vedere Fred. Ha bisogno di una boccata d'aria, di una ventata di normalità, perché negli ultimi giorni ha visto gente morta e preti che giocano ai giochi di ruolo invece di dire messa. Fa parte del gioco ed è d'accordo, ma ha bisogno del suo spazio dove si sente una persona come tutte le altre. Ne ha disperatamente bisogno.

   Quando entra trova il pub semivuoto come sempre. Non è un posto molto affollato; ed è per questo che gli piace. È nascosto in un vicolo vicino a Deptford Bridge, e può raggiungerlo tranquillamente a piedi da casa sua. Quando individua Fred, seduto ad un tavolo di legno quadrato, per due persone, alza una mano e lui contraccambia.

   «Pensavo mi avresti dato buca.»

   «Lo sai che a un certo punto ricompaio sempre, no?»

   «Stavolta ho avuto l'impressione che ci avresti messo più tempo», ammette Fred. Chiama la cameriera, e ordinano un pezzo di pizza con il formaggio e due birre medie. Di sottofondo, piacevole, c'è una canzone degli Arctic Monkeys di molti anni fa. «Che stai combinando, Joshua?»

   «Niente. A parte cercare di convivere con quella cosa che mia nonna chiama dono, non sto facendo niente.» Alza le spalle, e guarda altrove. Cerca ogni istante di più di fuggire dagli sguardi della gente, ma stavolta è pure per il senso di colpa. Non vuole tenere Fred lontano dalla sua vita, gli ha sempre raccontato tutto, ma stavolta è diverso, stavolta è tutto quasi inspiegabile e ha paura, più di ogni altra cosa, che tutto questo sia troppo persino per Fred. L'unico, a parte la nonna, che gli ha sempre creduto.

   «Quindi con la medium non hai fatto progressi?»

   «Non ancora. Ci stiamo lavorando.» Dà un sorso alla sua birra, poi dà un'occhiata alla schiuma, tutto pur di non guardare Fred negli occhi. Ma la schiuma non c'è e, sulla superficie del liquido, vede il suo riflesso e quello della sua ombra, appostata dietro di lui, che continua a seguirlo e gli ricorda che è lì, con lui, in attesa di risposte. Affamata di qualcosa, che a Joshua pare comprendere persino il suo flusso vitale.

   Lascia il bicchiere, che contro il legno robusto del tavolo produce un rumore violento. Vede Fred sussultare per lo spavento, e quando lo guarda l'amico alza le sopracciglia. Non sa spiegargli cosa stia succedendo, forse è per questo che lo vuole tenere fuori. Non ha solo paura che non gli creda, ma anche che non sappia esprimersi lui. Nessuno che non abbia quel dono può capire davvero, e non vale la pena sprecare parole con chi, quando poi è lontano, vive una vita normale.

   Fred frequenta una scuola di fumetto, vuole diventare un disegnatore professionista. È bravissimo, ha un talento innato, per fortuna coltivato nel tempo e Joshua spera che presto venga riconosciuto. Ha avuto qualche storiella d'amore, ma è uno di quegli amici che, pur avendo una ragazza accanto, non ti abbandona. Ha una famiglia che lo supporta sia nelle sue scelte che dal lato economico ma, tuttavia, Fred lavora part time in un museo, dove fa da guida il pomeriggio dopo scuola. Usa quei soldi per comprare i materiali da disegno.

   La sua vita è perfetta, Joshua lo invidia, e a volte vorrebbe non essere il suo migliore amico solo per non rovinare quella perfezione che gli gira attorno.

   Eppure Fred c'è sempre e Joshua si sente solo un peso.

   «Tu come stai?», chiede, infine, cercando di spostare l'argomento sull'altro e smettere di parlare di lui. Tanto, alla fine, si finisce sempre per andare a parare sul dono, visto che non ha molto altro di cui parlare e, dopo quei giorni infernali e dopo Yishmael, che non riesce proprio a togliersi dalla testa, preferisce dimenticare per un po'.

   Fred prende il bicchiere di birra tra le mani. Tamburella le dita sul vetro, guarda il liquido all'interno intensamente. Arriccia le labbra, e sembra preoccupato. «Papà sta facendo dei controlli; le ultime analisi che ha fatto avevano qualche valore sballato. Escludono sia qualcosa di grave: il suo medico dice che forse è solo il principio di un diabete ma lui è preoccupato. Sai, non è molto propenso a prendere le cose in modo pragmatico. Papà è più uno che entra nel panico e si fa i peggio film.»

   «E tu che pensi?», chiede Joshua, inclinando la testa per guardarlo meglio, ma Fred non sembra per nulla intenzionato a alzare gli occhi.

   «Sto cercando di pensare che sia così, ma ho una lunga lista generazionale di parenti morti di tumore, da parte di papà e la cosa non mi rasserena affatto. Mio nonno è morto di leucemia fulminante. In tre giorni è passato dallo stare bene a... be', lo sa, c'eri anche tu al funerale.»

   Joshua se lo ricorda bene, il funerale del nonno di Fred e, sebbene sia sempre stato sincero con lui, non gli ha mai rivelato di aver visto quella figura così importante in piedi accanto alla sua bara, al cimitero. Per questo non vuole andare a Highgate per cercare per cercare la tomba di Janine. Sa che, anche più delle folle, i cimiteri non sono posti per lui.

   Non va nemmeno a trovare il nonno, per quel motivo. Anche se, dentro di lui, Joshua vorrebbe tanto rivederlo. E magari parlarci. Ma non è nemmeno detto che lui sia ancora qui. La morte è un mistero che non ha ancora – e non ha intenzione di scoprire.

   «Magari è davvero solo il diabete, no? Non hai detto che ce lo hanno avuto tutti, in famiglia?», chiede, e cerca di sorridere. A quel punto Fred alza finalmente lo sguardo sul suo e piega la bocca, malinconicamente.

   «Sì, è vero anche questo ma... non so che farei se dovesse succede qualcosa a mio padre. Non so tirare avanti una famiglia da solo e sono figlio unico. Mia madre non reggerebbe il colpo e cadrebbe tutto sulle mie spalle. Lo so che è una cosa brutta da dire ma, io non...»

   «Lo so. Sarebbe anche un ostacolo per le tue ambizioni, perché dovresti occuparti di lei ma sono certo che non ti permetterebbe mai di lasciare gli studi! Avanti, tua madre ha tappezzato casa di tuoi disegni! Non ho mai visto un salotto così ricolmo di dipinti su Batman e Capitan America.» Cerca di rassicurarlo ancora e Fred, finalmente, ride.

   «Vero anche questo.»

   «E poi... non succederà niente, Fred. Non devi preoccuparti, sul serio. Siamo umani, a volte funzioniamo a scatti, ma poi ci riprendiamo.»

   «Hai ragione, mi sto preoccupando troppo. Ma è per questo che avevo bisogno di parlarne con qualcuno e... be', anche se sei uno stronzo e non ti fai sentire, sei il mio migliore amico. Avevo bisogno di parlare con te, Shu, però... però tu hai qualcosa che non mi convince e, ti prego, se non me lo dici mi farai solo preoccupare.»

   Joshua si morde il labbro inferiore. Non sa cosa fare. Non vuole condividere niente di ciò che gli sta succedendo solo perché, in effetti, non ha ancora concretezze tra le mani. Ma c'è una cosa che lo attanaglia e di cui non ha ancora parlato con nessuno, e sente di averne terribilmente bisogno.

   Si sporge verso Fred, lo guarda negli occhi. Vede la sua immagine riflessa dentro di essi e due punti bianchi, dietro di lui, che lo puntano.

   Non distoglie lo sguardo, ma ha bisogno di quel contatto visivo. Ne ha bisogno per sentire che è tutto reale. Pure se quella cosa è lì, che lo fissa.

   «Lo so che sembra assurdo ma... ho fatto un patto con un demone e questo non vuole saperne di uscire dalla mia testa.» 

Fine Capitolo XII


(Questo capitolo partecipa al COWT12 (M3) indetto da Lande di Fandom con il prompt "vita/morte")

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro