Capitolo 4 (prima parte)

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«Ti giuro, non lo sopporto» sta dicendo Léo a Teo. «È un pallone gonfiato.»

«Non è così male. Avete due caratteri diversi, tutto qui.» Teo continua a guidare, mentre Léo si sfoga parlando di Jacob, che anche oggi ci ha tenuto a mettere in mostra tutto il suo potenziale fisico e la sua cattiveria sotto canestro durante la partitella, quando era marcato proprio dal gigante francese.

Io invece me ne sto in silenzio. Al suo posto anche a me girerebbero, perché a volte Jacob è pieno di sé a tal punto da risultare insopportabile. Se non fosse stato per Niko che ha sempre fatto battute che lo ridimensionassero, l'avremmo odiato anche noi sin dal primo giorno. Forse neanche le sue indiscusse qualità da giocatore ci avrebbero spinti ad accettarlo pur di raggiungere uno scopo comune.

Se penso che durante la stagione giocherò poco, viene anche a me da incazzarmi – o almeno da lamentarmi come Léo. Tuttavia, Colucci è stato molto chiaro: devo essere uomo squadra al di là del campo. Devo trasmettere agli altri l'importanza che riveste giocare per la Vulnus. Dovrò anche istruire i ragazzi che il coach definisce ancora "giovani", come Pala, su cosa significhi essere un punto di riferimento all'interno dello spogliatoio.

Mi ha dato un ruolo importante, un ruolo che mi gratifica dal punto di vista umano. Se ripenso al finale della scorsa stagione, mi chiedo se abbia tutte le rotelle a posto. Colucci, però, si rende conto che ognuno di noi ha un diverso impatto sulla squadra.

Sono inorgoglito, ho la sensazione che sappia che sto passando un periodo difficile e voglia darmi qualcosa di cui occuparmi e che mi renda fiero di me stesso. Non posso sprecare la sua fiducia.

«Anche se fosse un pallone gonfiato,» sento dire da Teo, «non devi incazzarti con lui. A che ti serve? Sei solo più nervoso e poi giochi peggio, stai peggio, quindi giochi ancora peggio perché stai peggio e non ne esci più.»

«Forse hai ragione. Ma non lo sopporto.»

«Tu pensa solo a giocare. Non metterti a litigare.»

Presto arriviamo al complesso di palazzine in cui abito, nella zona residenziale di Villafiore. Teo mi lascia al portone principale, poi lui e Léo mi salutano, prima di continuare a discutere. Supero il cancello e attraverso ad ampie falcate il cortile che circonda i palazzi, arrivando al mio.

Salgo al mio appartamento, dove trovo Eva, la donna ucraina che mi fa le pulizie, intenta a passare lo straccio. I suoi capelli di un biondo platino mi accolgono, mentre sta riponendo nello sgabuzzino i detersivi prima di andare via dandomi le spalle.

«Stai attento» mi rimbecca. «Non si è ancora asciugato dappertutto.»

«Scusami.» Appendo le chiavi di casa al chiodino accanto alla porta e mi dirigo verso la camera da letto, dove di sicuro troverò Whisky, il barboncino che ho adottato da un paio di anni. Il nome non mi fa impazzire, ma l'ha scelto Liam e alla fine gli sono rimasto affezionato. Audrey non ha voluto portarselo fino a New York, così lui è qui a Villafiore insieme a me. Lei si è tenuta nostro figlio, io il nostro cane.

Lo trovo sdraiato a pancia in giù sul letto matrimoniale, ma appena si accorge che sono a casa drizza la coda e mi abbaia festoso. Ho detto a Eva che può farlo stare qui mentre pulisce il pavimento nel resto di casa e Whisky si è abituato subito.

Ricambio le sue attenzioni con un'ampia dose di coccole, poi mi affaccio verso il soggiorno per controllare che il pavimento sia asciutto.

«Mike, io vado» mi avverte Eva, indossando una giacca di pelle e un foulard. «Non stare sempre chiuso in casa.»

Me lo dice ogni volta da quando sono rientrato dal ritiro con la squadra. Si è accorta della batosta emotiva che mi ha lasciato la separazione da Liam e non vuole che mi butti giù. Di solito ignoro il suo consiglio a uscire, ma stasera ho voglia di prendere un po' di aria.

«Conosci un ristorante dove posso portare anche Whisky?» le chiedo. Il mio amico a quattro zampe non sarebbe ben accetto in tutti i locali. E lui ha molta empatia, riesce a capire quando non è gradito e si rattrista.

«Sì, conosco un posto...» inizia a dire lei, quando il mio telefono squilla interrompendola.

Le faccio cenno di aspettare, e rispondo. «Niko?»

Non mi aspettavo una sua chiamata.

«Ho litigato con Sasha, posso venire da te? Pala ha organizzato una serata romantica con Elena, e Jemmy mi ha dato buca

«Sì, va bene» mi rassegno. Guardo Whisky, che mi ha seguito fuori dalla camera. «Mi spiace, amico, ceneremo fuori un'altra sera.»

Prendo comunque il guinzaglio, perché mi va di portarlo a spasso, nonostante se ne sia già occupata Eva. Questa donna è la mia salvezza per l'organizzazione di casa.

«Che posto mi stavi dicendo?» riprendo il discorso, mentre sistemo il guinzaglio cercando di tenere a bada l'euforia affettuosa di Whisky. Non ho dimenticato di averla interrotta.

«L'Osteria Felice» mi dice. «Ci lavora mio figlio, si mangia bene.»

Osteria Felice.

Memorizzo il nome, prima o poi ci farò un salto.

Mi allaccio il grembiule dietro la schiena. Sono appena arrivata e ancora non ho incontrato Riccardo. Ci sono solo Jasmine e Yuri, più un paio di cuochi che stanno preparando la cucina in vista dell'apertura serale.

«Vorrei saper suonare anche io» dice Jasmine appena finisco di raccontarle della mia avventura all'Oasi del Palato. «Sarebbe più gratificante di stare qui per pagarmi l'università.»

«Almeno tu ci puoi andare, all'università» replico. «O comunque a studiare quello che vuoi. Io no.»

«Magari con questo nuovo lavoro, sì. Se ti prendono a tempo pieno, non dovrai più venire qui.»

Sarebbe bello, sarebbe infinitamente bello, per quanto continuo a crederlo molto improbabile.

Quando Oreste Faggi mi ha detto che mi avrebbero dato cinquanta euro a serata, non volevo crederci. Mi pagano persino i due giorni di prova. Se conto che sono due sere a settimana, sarebbero quattrocento euro, con la variabile dei mesi che non sono precisamente di ventotto giorni e quindi qualche volta potrei prendere di più... Ma sto volando fin troppo con la fantasia.

Non ho ancora incontrato mia madre e non le ho potuto dare la notizia. Dubito che le sarebbe importato, se non per quanto riguarda la paga. Detesto mio padre per averle fatto avere un matrimonio di agi finché non se ne è andato di punto in bianco. Va dal parrucchiere due volte al mese e si fa le unghie altrettanto spesso. In più, a volte esce anche con le amiche a cena o al cinema... Per fortuna lo paga con il suo stipendio, ma è capitato che mi chiedesse di aiutarla con le spese di casa. E io ho odiato quei momenti, perché per me hanno significato dover porre in secondo piano le mie esigenze per coprire le sue.

Ci ho provato, ho provato a dirle che non si può andare avanti così, che deve diminuire questi suoi "vizi", ma non ci riesce. Per lei è già denigrante pulire gli alberghi e gli appartamenti che le dà la cooperativa per cui lavora, figuriamoci presentarsi con un capello fuori posto.

Non gliene faccio una colpa, perché per lei è stato duro accettare che mio padre non la volesse più nella sua vita, ma ha messo da parte me. Ha ignorato i miei desideri e, nonostante io mi intenerisca ogni volta che la vedo affaccendarsi in casa, a volte dovrei rinfacciarglielo.

È una situazione complicata, perché non so come gestirla. Mi sono ritrovata a essere l'adulta di casa, a dover pensare io a come organizzare le faccende, a imparare a cucinare appena rientrata da scuola, a non impazzire per essere stata abbandonata. Due volte, prima da mio padre, poi dalle sue scarse cure.

Se non avessi avuto la musica e i ragazzi del fanclub, non so cosa sarebbe stato di me.

«Allora?»

La porta della stanzetta in cui lasciamo le nostre giacche e le varie borse o zaini si è aperta. Riccardo è sulla soglia e mi sorride raggiante, come se fosse già sicuro dell'esito.

«Credo che sia andata bene, ho due sere di prova la prossima settimana.»

«Lo sapevo, lo sapevo! Bravissima!» Mi batte il cinque, entusiasta. «Questo è solo il primo passo, vedrai.»

Sorrido, ma dentro di me so che sarà molto più dura di quanto creda lui.

Anche i ragazzi del fanclub sono euforici al pensiero che suonerò in un locale di lusso – Bruno e Cornelia già progettano di venire una sera, anche se spenderanno un patrimonio solo per prenotare. Sono tutti felici per me e io...

Io stranamente mi sento sprofondare ogni volta che ci penso.

Vorrei essere felice, ma ho paura che qualcosa possa andare storto, che io non sia all'altezza della richiesta dell'Oasi o che chissà cosa possa succedere di male.

Ho sempre paura che le cose vadano bene e quando per una volta vanno per il verso giusto fatico a godermele. Vorrei un cervello meno problematico.

«Dai, andate, stanno iniziando ad arrivare i clienti.» Riccardo incoraggia me e Jasmine. Ha un fare particolare, diverso da quello del proprietario dell'Oasi, che è stato sì interessato a ciò che avevo da dire, ma in modo più freddo e distaccato.

Riccardo, invece, si comporta come se fosse il fan numero uno di ognuno di noi.

«Principessina, fai proprio come ti pare» sibila Yuri, appena gli passo accanto alle credenze per prendere i piatti da distribuire sui tavoli.

«Come mi pare?» ripeto, incredula. «Io lavoro e mi faccio un mazzo tanto, non credo proprio di fare come mi pare.»

Non so da dove provenga questa spavalderia né, d'altra parte, il rancore che Yuri mostra ogni giorno di più nei miei confronti. Che gli ho fatto di male? Che vuole da me? Non può semplicemente lavorare senza lanciare frecciatine?

Me lo lascio alle spalle ed esco dalla stanza con una pila di piatti che per poco non mi impedisce la vista.

Ma la mia vista funziona benissimo.

E sull'ingresso dell'Osteria ci sono due giocatori della Vulnus. Entrambi alti e imponenti. Uno è bianco e con lo sguardo da gran paraculo, ma è l'altro a catturare la mia attenzione. La carnagione bruna, la barba definita intorno alla bocca carnosa, gli occhi di un neutro nocciola e l'aria gentile, la stessa che ha quando batte il cinque agli avversari a fine partita o quando esulta con i compagni per un canestro. Uno è Tomic figlio, ma l'altro... l'altro è Mike Cooper.

Mike.

Quello stesso Mike che stamattina temevo andasse via dalla Vulnus e che temevo non avrei mai incontrato.

Un tonfo sordo di cocci a terra mi richiama a me stessa, così come il guaito di un cagnolino. Mi ritrovo con i piatti rotti tra i piedi, con il fracasso della loro caduta a rimbombarmi nelle orecchie e l'imbarazzo per la peggior figuraccia di tutta la mia vita.

Spazio autrice
Non mi sono dimenticata di aggiornare la storia, ma ho pensato che era meglio dividere questo capitolo in due parti... E ho fatto bene, giusto?

Quanto è grande la figuraccia di Lavinia con Mike? Al suo posto sarei sprofondata nel pavimento, e voi?

 Baci a tutti e grazie per aver letto fin qui,
Snowtulip.

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