Fino all'ultimo respiro

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Il telefono squillò ma Cesare lo ignorò: 'Questo gioco lo vincerò io.' si ripromise. Gli occhi di quella ragazza non accennavano a cambiar direzione, il suo sguardo non mollava. Lei combatteva, lui anche e questo gli piaceva.

<<A Ce', ma che c'hai una paralisi?>> chiese Mirko, agitando la grande mano davanti i suoi occhi.

<<No, nessuna paralisi.>> ribatté, continuando quella lotta con la sconosciuta.

<<E allora vedi de tornà nel mondo dei vivi che tra un'ora inizia la partita!>> incitó lui.

'Un'ora? La coreografia deve essere montata, i cori innalzati e dalla curva sud deve scaturire un boato all'entrata del Capitano.' questi pensieri invasero la mente di Cesare, facendolo arrendere e dandola vinta, per il momento, a quella ragazza piena di sé.

<<Annamo Mi', che la Magica ce aspetta.>> disse, voltandosi e correndo verso l'entrata.
Abbassò lo scalda collo, afferrò il documento e l'abbonamento dalla tasca della tuta e si avvicinò al primo blocco dove, gli steward, gli chiesero di fornirgli quelle due tessere. Passarono i tornelli e, come ogni domenica, da oramai dieci anni, si ritrovarono dinanzi quella scalinata che, una volta scalata, ti apriva la vista sul paesaggio più bello del mondo: davanti a te trovi il campo verde brillante dove i tuoi idoli daranno spettacolo e, sotto e sopra di te, una curva, migliaia di persone, unite da una passione, una fede. Insieme cantavano, ridevano, piangevano, si abbracciavano, eppure, erano emeriti sconosciuti: questa è la curva sud, questa è la Roma.
Tutti cantavano e il nervosismo nell'aria era palpabile: quella non era una partita come tutte le altre, quella non era una sera qualunque, quella era la notte magica dove uccidi o verrai ucciso.

In fondo, proprio attaccati alle ringhiere, Cesare vide Lollo e Gabriele pronti a dirigere l'intera coreografia. A metà curva, c'erano Alessandro e Nicolas e, in alto, Carmine e Massimo, quest'ultimo soprannominato il Finestrella, per la mancanza di un paio di denti davanti.

<<Fraté, annamo a prende il telone, salimo su e je famo vedé a quei poracci cos'è una vera coreografia.>> disse Mirko, sorridendo e mostrando lo smile che si era fatto qualche settimana prima.

<<Madonna Mi', co ste palle in bocca me pari proprio frocio.>> lo canzonò Cesare e, giustamente, si prese un pugno sul braccio, accompagnato dal suono delle loro risate.
Quel ragazzo, Mirko, minuto, dai capelli rossi e gli occhi castani, era il suo compagno di vita. Tante sono state le stronzate fatte insieme e tante sono state le volte che si sono difesi a vicenda; e tante altre sarebbero state le volte che si sarebbero aiutati senza neanche chiederselo.

<<Annamo che sennò sta coreografia la montamo l'anno prossimo.>> disse Cesare, dando una pacca sulla spalla a quello che considerava suo fratello. Mirko annuì e si diressero verso Lollo e Gabriele.

<<Ao ce l'avete fatta. Stavamo pe chiamà 'Chi l'ha visto.>> disse Lollo, lanciandogli addosso due pesantissime tele bianche.

<<Ma devi sempre rompe li cojoni?>> domandò Cesare, per poi voltarsi e raggiungere Finestrella e Carmine.

<<Bella Ce'!>> salutarono all'unisono i due.

<<Bella!>> risposero i due fratelli.

<<Allora, è tutto pronto?>> domandò Carmine, storico sostenitore di quella squadra, abbonato in sud da trentadue anni.

<<Sì. Noi abbiamo metà della lupa e lì, Alessandro e Nicolas, hanno l'altra metà. I fogli so stati dati a tutti?>> chiese Cesare.

<<Sì, abbiamo già fatto tutto.>> ribattè Carmine. Cesare lo ammirava quell'uomo grosso, tutto tatuato, anche in volto, rasato e con due occhi che ricordavano dei pozzi neri. Così rude, così violento in apparenza, ma con un cuore così grande. Ricordava ancora la prima volta che, tre anni prima, glielo presentarono: era terrorizzato da quella stazza così muscolosa dato che, a quattordici anni, era particolarmente magro e minuto. Era un ramoscello messo a confronto, un ramoscello che, con un solo soffio, avrebbe potuto spezzare. Ricordò che si presentò dandogli una pacca sulla spalla e non scherzava quando diceva che era rimasta indolenzita per giorni. Ma da subito, quel suo aspetto da cattivo, era stato eclissato dalla gentilezza che aveva, dalla disponibilità verso gli altri e dall'amore per quei colori.

<<Allora ce manca solo da schiarì la voce e cantà finché non rimanemo senza!>> disse Mirko. Tutti annuirono e, quando Lollo diede l'input per cantare, tutti lo seguirono. Cesare controllò velocemente l'ora sul cellulare, notando che non mancava molto e sapeva che di lì a poco sarebbe iniziato a risuonare il vecchio inno. Non si fece attendere un secondo di più e, quando le prime note si fecero sentire, con una mano sul petto, si alzarono tutti in piedi e iniziarono a cantare:

<<Cor core acceso, da na passione, undici atleti, Roma chiamò, e sotto ar sole der cuppolone, na bella maja e du colori je portò. Li du colori, de Roma nostra, oggi signora, der futteball, non più maestri, ne professori, mo so dolori perché Roma ce sa fa!...>> e così, per tutto l'inno, le voci urlarono a quel grande amore.

Finito quello continuarono con i cori finché, finalmente, non arrivò il momento: l'inno, quello ufficiale, Grazie Roma, riecheggiò nell'aria e, tutti in piedi, con le sciarpe in alto, a polmoni aperti, cantarono per lei.

<<State pronti!>> urlò Carmine. Annuirono, presero i teli e iniziarono ad aprirli lateralmente e, alla fine dell' inno, una distesa bianca scivolò giù come fosse una valanga, mostrando la grande lupa a tutto il mondo. I fogli colorati di porpora oro e arancione, contornarono il loro lavoro, rendendolo ancora più bello.

Rimasero così per qualche minuto poi mollarono la presa: le lenzuola scivolarono giù e, dall'altra parte, nella tana dei loro più acerrimi nemici, videro una grossa aquila azzurra stilizzata padroneggiare la curva nord: <<Hanno provato a copiacce ma j'ha detto male.>> disse Cesare, fiero del loro lavoro.

<<C'hai ragione fraté, ma ora non pensiamo a loro. Tira fori la voce che i nostri stanno a entrà.>> disse Mirko.

Guardarono verso il campo, lo speaker iniziò a nominare i giocatori e, quando arrivò il turno dell'ottavo Re di Roma, le voci si fecero più intense, più potenti: <<Con la maglia numero dieci, il capitano, Francesco...>> annunciò al megafono l'uomo.

<<To-tti!>> rispose la curva in coro. Ed eccolo che, ancora una volta, solcó quel prato per regalargli magie come negli ultimi vent'anni.

L'arbitro fischió l'inizio dei 90 minuti più emozionanti che mai. La loro squadra era assetata di vittoria, lottavano tutti come lupi e, quando dopo quindici minuti, Totti servì una palla perfetta a Dzeko, da solo dinanzi al portiere, restarono tutti senza fiato. Tirò, fuori.

<<Ma vaffanculo!>> urlò Cesare, mettendo le mani tra i capelli corvino.

<<Come se fa a sbaglià da lì?>> imprecò Mirko.

<<Mortacci tua!>> urló qualcun altro.

La partita fu equilibrata ma, allo scadere del primo tempo, un improbabile Basta, scattò sulla fascia, saltò Manolas e la mise in rete. Dalla nord si sentì un boato di acclamazione, il giocatore corse sotto la curva e loro, sotto la pioggia incessante appena iniziata, amareggiati, si disperarono.

L'arbitro fischiò la fine del primo tempo e tutti nello spogliatoio. Cesare si sedette e si accese una canna, tanto per rilassarsi un po' e alleviare la tensione che quella partita gli stava donando.

<<Ma quando la metterai la capoccia a posto?>> domandò Finestrella, dandogli uno schiaffo dietro al collo e sfilandogli lo spinello dalle mani, per poi farsi un tiro.

<<Nel momento in cui te ricresceranno i denti a te!>> ribatté il ragazzo, per poi ridere e riappropriarsi della sigaretta speciale.

<<Sei proprio laziale.>> disse lo sdentato.

<<Mai! Meglio na vita in galera che laziale pe na sera!>>

<<Amen.>> disse lui, prima di alzarsi e tornare al suo posto.

Videro i giocatori tornare in campo; presero il loro posto, l'arbitro al centro, vicino a Totti e Dzeko che avrebbero dato via al calcio d'inizio del secondo tempo. Il fischio, il primo tocco e di nuovo tutti in piedi.

La partita continuò a essere equilibrata: due occasioni da gol per la Roma e una per la Lazio. Oramai il tabellone segnava l'ottantesimo minuto e la disperazione regnava sulla maggior parte dei volti che affiancavano Cesare.
Uno scatto di Nainggolan riaccese la speranza. Saltò Basta, arrivò sulla linea dell'area di rigore, caricò il piede destro e lanciò la palla che s'insinuò sotto il sette. Goal. Dalla curva sud si innalzò un boato: saltavano tutti, si abbracciavano e, tra una spinta e l'altra, Cesare finì due scalini più sotto, ritrovandosi tra le braccia di sconosciuti, ma fratelli al tempo stesso. Urlarono di gioia e benedissero quel giocatore per aver riaperto la partita. Il Ninja, così soprannominato, corse sotto la curva a incitare i tifosi di sostenere la squadra ancora per dieci minuti. Dieci minuti per arrivare alla gloria, dieci minuti per dargli la carica.

<<Cantate come se fosse l'ultima volta!>> gridò Lollo nel megafono, dal sotto della curva. Ripresero tutti il loro posto e partí il coro:
<<Dammi tre punti, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me! Sei sempre mia, anche quando vado via, c'è solo l'A.S. Roma per me! Roma, Roma, Roma!>>

Furono i dieci minuti più intensi della vita di Cesare. Immobile prese palla a metà campo, saltò Strootman, poi Manolas e si trovò di fronte a Szczesny e Cesare pregò il Signore che quel fenomeno bloccasse l'attacco di quel ragazzo.

Tirò, il fiato sospeso, il cuore in gola, la curva calò in un silenzio tombale: sopra la traversa. Gridarono di gioia.

Era l'ottantanovesimo quando il portiere ribatté dal fondo; la palla arrivò a De Rossi che avanzò e la passò a Dzeko che saltò l'uomo; ad aspettarlo c'erano due giocatori avversari ma il bosniaco individuò il capitano alla sua destra. Passò la palla e, con quel piede magico, da fuori l'area di rigore, l'ottavo Re di Roma mise in atto il suo famoso cucchiaio che sorvolò la testa del portiere e finì in rete.

Erano tutti increduli, tanto da impiegare qualche secondo a rendersi conto che quel quarantenne, a detta di tutti finito da anni, avesse portato la sua squadra alla vittoria. Si abbracciarono tutti nuovamente: chi urlò, chi saltò, chi pianse.
Totti corse sotto la sud e Cesare corse giù, in fondo; si fece spazio tra la folla e si attaccò alle sbarre del cancello. Lui era lì, dinanzi a Totti e lo ringraziò per quell'emozione che da anni gli regalava.

<<Grazie capità!>> era l'unica cosa che riuscì a dire singhiozzando.

Guardò in alto e il tabellone segnava il novantesimo: il fischio finale, la festa, la gioia.

Cesare e Mirko restarono ancora un po' dentro e, dopo mezz'ora, uscirono dallo stadio.

<<A Ce', io il motorino cell'ho de qua. Voi uno strappo a piazzale Clodio?>> chiese Mirko, una volta fuori.

<<No Mi', devo vedé prima na cosa.>>

<<Non me di che voi vedé se quella sta ancora là.>> disse lui, storcendo il naso.

<<E a te che te frega. A domani!>> urlò Cesare, correndo verso il campo da tennis.

Si rese conto che quello che stava facendo era una pazzia ma, in fondo, lui era nato pazzo.

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