Capitolo 3

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Dopo essersi presa una bella sgridata per l'episodio del mercato, appena rincasata, si beccò anche una bella punizione. Niente dolci fino al giorno del suo compleanno che sarebbe stato tra soli cinque giorni e guai se provava a dire qualcosa. Stroncato sul nascere il suo animo ribelle, Amelia si limitò a sbattere sonoramente la porta della sua stanza, facendo tremare le pareti al piano di sopra.

Rivide i genitori solo all'ora di cena, nella sala da pranzo dove nessuno parlava. Ad allietarla non c'erano neanche le barzellette di suo fratello, giacché mancava all'appello. Fu Mrs. Putnam a spiegare alle domestiche, mentre queste apparecchiavano il grande tavolo lungo, che Leonard avrebbe cenato con Maurice e altri suoi amici. Sentendo ciò, Amelia si imbronciò un poco. Non era mai capitato che suo fratello impegnasse così tanto tempo da Maurice senza di lei, che ben sapeva quanto amava l'odore della sua officina e della vernice fresca sui velivoli. Un'altra delusione. Cenò rapidamente e si ritirò presto nella sua stanza. Buttatasi a peso morto sul materasso, Amelia guardò il cielo fuori dalla sua finestra, aperta per far circolare l'aria notturna sempre più afosa di quel periodo. Non c'erano stelle e non vi era nessuna falce di luna ad illuminare il piccolo balcone della sua stanza, adornato solo da un vaso attaccato alla ringhiera bianca con delle belle di notte gialle e già aperte, che fiere mostravano la propria bellezza alla desertica quiete notturna.

Sotto quel cielo, a chissà quanta distanza da lei, sapeva che c'era Samuel. Su una nave, probabilmente nella branda della sua cabina, o a divertirsi con gli amici per far passare il tempo. Chissà se, al suo ritorno, nell'apprendere di aver donato il fazzoletto di seta a qualcuno che aveva bisogno, sarebbe stato fiero di lei. Si poteva considerare una piccola eroina? Mai come il suo adorato fratello, certo, ma almeno in parte poteva vantarsi di aver aiutato qualcuno. Prima di addormentarsi e già con le palpebre chiuse, a proteggere gli occhi dalla stanchezza e dalla flebile luce della candela posta sul piccolo comò alla sua destra, pescò come ultimo ricordo le parole di Jennifer Kelly, non più sconosciuta ma già amica.

"Potrebbe diventare un'eccellente infermiera."

Inutile dire che, sentendo il racconto dalla governante Tilla, Mrs. Putnam aveva fatto una smorfia del tutto soddisfatta di quello che poteva apparire come un complimento per la sua bambina.

"Siamo grati a quelle donne che svolgono una professione così importante. Ma, in tanti anni, le donne della famiglia Putnam non si sono mai sognate di lavorare." Aveva replicato in un classico tono da vera padrona, di quelli che non ammettevano obiezioni. Fortuna volle, per lei, che il figlio non fosse presente alla cena altrimenti si sarebbe aperto un vero e proprio dibattito sull'importanza di dare una mano al prossimo.

Amelia l'aveva ignorata, nel modo più gentile ed educato possibile, e per la prima volta non aveva replicato all'affermazione che sapeva d'acido come un formaggio avariato da mesi. Mr. Putnam aveva seguito, senza volerlo, lo stesso esempio della figlia. Egli si limitò a strizzarle l'occhio, accompagnato da un sorriso fiero nascosto dai baffoni rossicci sotto il naso. Un'espressione benevola che lasciava intendere la frase: "Sono fiero di te. Brava."

E con il sorriso di chi porta a casa la vittoria dopo una gara, una delle prime, si addormentò beata. A cullarla non vi era la voce di suo fratello che le narrava l'ennesima storia di cavalieri, dame in pericolo, o eroi di quell'epoca, ma solo il rilassante e mai banale canto di grilli lontani.

Era il 5 Maggio quando arrivò il primo telegramma di Samuel. Poche righe, poche parole, ma cariche di significato a amore per i suoi cari, anche ad una così grande distanza.

"Stiamo per arrivare in Irlanda. Stop. Pace assoluta nelle cabine. Stop. Vi rinnovo i miei saluti e il mio affetto. Stop. Tanti auguri alla mia sorellina per il suo diciassettesimo compleanno. Stop. Ti garantisco un bel regalo per farmi perdonare. Stop. Un grande bacio alla mia Raissa e un abbraccio a tutti voi. Stop." Concluse di leggere Tilla, seduta su una sedia della cucina e circondata dai suoi padroni.

Mrs. Putnam guardava fuori dalla finestra con un volto angosciato ma con le labbra piegate in un sorriso rassicurante; Mr. Putnam annuiva grato al cielo e a Dio per avergli portato notizie di suo figlio; Amelia gioiva e saltellava festosamente per gli auguri del fratello e Leonard fissò l'angolo del tavolino. Indubbiamente era felice di ricevere notizie da Sam ed era certo che lo sarebbe stata anche Raissa quando, l'indomani, gli avrebbe fatto leggere quel telegramma.

"Che Dio sia lodato!" Esclamò solennemente e con tono basso Mrs. Putnam.

"Sempre sia lodato. Amen." Concluse a modo di preghiera Tilla, ripiegando il telegramma e riponendolo sul tavolino bianco al suo fianco.

E mentre Leonard e Mr. Putnam erano troppo occupati mentalmente per ringraziare Dio, Amelia continuava a saltellare come una bambina davanti ai suoi regali di Natale. "Chissà cosa mi porterà Sam quando tornerà." Canticchiò, saltellando fuori dalla cucina per giungere nel salotto dedicato agli aperitivi, dove c'era il tavolo da biliardo e la grande libreria di famiglia.

"Invece che ringraziare Dio ella è allegra perché curiosa di conoscere il regalo di suo fratello. Ah, quand'è che crescerà un poco?!" Si lamentò Mrs. Putnam, sedendosi accanto a Tilla e chiedendo a quest'ultima un goccio di whisky. Quel telegramma meritava d'esser festeggiato come meritava.

"Non lamentatevi sempre, moglie. Ha diciassette anni, fatela vivere come la sua età richiede!" Intervenne Mr. Putnam, alzandosi dallo sgabello accanto allo stipite della porta, armandosi di orologio da taschino dalla cordicella dorata e un giornale arrotolato. "Sarà meglio che vada. Mi hanno detto che c'è abbastanza traffico per le strade oggi." Detto ciò, uscì anche egli dalla cucina per andare sul viale esterno.

Se Mrs. Putnam si chiedeva -spesso e volentieri- da chi aveva ripreso la figlia gli bastava spostare il suo sguardo sulla figura del marito. Come faceva a pensare al lavoro in un momento del genere? Sospirò, tracannando il suo whisky sotto lo sguardo divertito del figlio. "Nulla da aggiungere in difesa di tua sorella? Strano."

"Lo sembrerà, madre, ma credo che sappia difendersi benissimo da sola." Leonard la lasciò sola con la governante e le due domestiche, intente a pulire i piatti ma che, con quella scusa, avevano potuto assistere alla conversazione dei padroni senza origliare e rischiare di farsi beccare dalla severa Tilla.

"Prendono la cosa in modo troppo facile." Commentò ancora Mrs. Putnam, trovando l'appoggio della servitù.

A lunga distanza da Riverdale, senza saperlo, era anche il pensiero di gran parte dei passeggeri a bordo del Lusitania. Le Signore dell'alta società che viaggiavano in prima classe si limitavano a partecipare alle quotidiane lezioni di coro, pomeriggi colmi di pasticcini e fumi di thè caldi, e sere a mangiare a sazietà con prelibatezze che i passeggeri della terza classe potevano solo immaginare.

Quella sera, tra quella gente ben vestita con borsette e ventagli alla mano, e sigari e calici colmi di vino nell'altra, furono invitati anche il brigadiere generale Samuel Putnam, il maggiore Cameron Mendel, due sottotenenti, e il tenente generale Andrew Lovett. Quest'ultimo, come una guida, comandava quella ridotta squadra partiti con l'unico intento di salvaguardare la propria patria e dare, segretamente, il proprio contributo all'Inghilterra. Pochi giorni, se non ore, gli dividevano dall'incontro con il generale John French. Ogni nome dei soldati presenti su quel transatlantico, a guerra conclusa, sarebbe stato osannato e ricordato come meritavano.

Per il momento, ad essere ricoperti di complimenti e ammirazione ci pensavano le donne. Le Signore ben vestite sembravano sgomitare per poter scambiare qualche parola con uno dei soldati, grado a parte. Sembravano curiose di voler sapere ogni cosa sul campo di battaglia. Come venivano addestrate le reclute, l'arruolamento, le licenze... se le eleganti Signore si fossero vestite in modo più sobrio sarebbe apparso agli occhi di tutti come un interrogatorio vero e proprio. A differenze sua e del maggiore Mendel, il brigadiere generale Putnam sembrava a suo agio nella conversazione. Senza lasciare troppi dettagli, rispondeva a tutte le domande che gironzolavano attorno a lui, sotto forma di voci squillanti e femminili. Ben presto, però, a tirar fuori loro da quella baraonda ci fu l'intervento dell'imprenditore Torres, d'origini spagnole ma che viveva a New York per affari da almeno cinque anni. Fu proprio lui, tra le altre cose, ad invitare i soldati per quella cena.

Preso posto ad un largo tavolo, Torres esordì: "Sono felice che abbiate accettato il mio invito, tenente generale."

Lovett ricambiò l'occhiata benevola dell'uomo. "Il piacere è senz'altro mio e dei miei uomini."

Convenevoli tra i due uomini ormai conclusi, le donne presero a chiacchierare tra loro e di tanto in tanto facevano ancora qualche domanda ai due sottotenenti, al maggiore o al brigadiere generale stesso. Lovett li guardava, scuotendo la testa e tracannando il brandy nel calice. Dal canto suo, i suoi uomini erano fin troppo galantuomini e non sapevano concludere in modo netto una conversazione assai noiosa come quella portata avanti dalla moglie e dalle tre figlie femmine del signor Torres. Un terzo sottotenente, qualche minuto dopo, riuscì a raggiungerli ma, prima di sedersi, si chinò all'altezza di Lovett e recapitò a lui una informazione di vitale importanza: "Un telegramma urgente dal colonello Greyson, direttamente da New York."

Lovett attizzò le orecchie. I capelli grigiastri erano tagliati a spazzola e indossava, come il codice militare richiedeva per quelle occasioni, la divisa da Marines riservata ai ricevimenti, di quel colore terra così simile alla senape avariata. La sua espressione era un misto di sorpresa e calma apparente. I suoi piccoli occhi scrutavano il volto giovane del generale, ancora in attesa di una sua parola. Quando Lovett si voltò verso i suoi uomini vide che questi, le Signore e il signor Torres, guardavano nella sua direzione.

"Qualcosa non va, tenente generale?" Chiese l'imprenditore, lisciandosi una parte di baffi curvi e neri, le quali punte arrivavano sino alle guance.

"Missive da New York. Devo rispondere." Si limitò a spiegare, spostando la sedia all'indietro per alzarsi. A quel gesto, venne imitato anche dagli altri soldati presenti a quel tavolo. "Comodi, ragazzi. Vi farò chiamare se avrò bisogno di voi. Vogliate scusarmi, signor Torres."

"Prego, tenente generale." Commentò l'uomo, mentre gli altri soldati -sebbene fossero un poco pensierosi- si risedettero al tavolo.

Mentre Lovett si recava fuori dalla sala della prima classe, sentì addosso -sulla propria schiena- gli sguardi dei suoi uomini. Indubbiamente, erano curiosi di sapere cosa conteneva quel telegramma. Ma prima di farli scomodare, Andrew Lovett voleva assicurarsi che non fosse nulla di allarmante. Almeno, si disse, sapeva di lasciarli in buona compagnia di quelle pettegole di Mrs. Torres e signorine.

"Avete una famiglia che vi attende nella vostra America, brigadiere generale?" Chiese una delle figlie dell'imprenditore, rivolta al giovane Putnam. Quest'ultimo puntava ancora lo sguardo sulla schiena dritta e composta del suo superiore e lontana era la sua mente dai futili discorsi da donnicciole.

"Sì. Famiglia e una fidanzata." Rispose in modo educato, lasciando che un cameriere riempisse il suo piatto di porcellana con del cibo.

"Oh, che fortunata che deve essere!" Cinguettò colei che doveva essere la più piccola delle tre, sorseggiando il liquore dal suo calice.

Non poteva continuare a torturarsi nel sapere cosa c'era scritto su quel dannato telegramma. Così Samuel sospirò, incapace di trovare una scusa plausibile per allontanarsi. Sarebbe risultato maleducato e non proprio un comportamento adatto ad un marines del suo grado.

A Parker, uno dei due sottotenenti seduti dinanzi a lui, venne un'idea migliore. Come se li leggesse nella mente, si permise di entrare nella conversazione: "Quando avete detto che è il compleanno di vostra sorella?"

Esattamente come successo a Lovett poco prima, ora anche Putnam aveva gli sguardi dei presenti addosso. "Domani." Rispose con tono distante e un poco malinconico. Tra poche ore la sua adorata sorellina avrebbe compiuto diciassette anni e lui se li sarebbe persi. Sperò almeno che potesse giungere in tempo il telegramma che aveva spedito due giorni prima. Per una frazione di secondo riuscì almeno a non pensare a Lovett, alla missiva che stava leggendo in quel momento, e si concentrò su Amelia. La immaginò, nel giorno del suo compleanno, bellissima nella sua innocente età. Quale vestito avrebbe indossato? Era quasi pronto a scommettere che avrebbe scelto quello bianco con i gigli verdi, con due semplici spalline a tirarlo su e una scollatura ampia ma non troppo profonda, come l'etichetta esigeva. La immaginò festosa, gaia, circondata dall'affetto di suo fratello, dei suoi genitori e, senza ombra di dubbio, anche da quello di Raissa.

"Allora, se me lo consentite, vorrei fare un brindisi in suo onore, brigadiere generale." Continuò Parker, riempiendo il suo calice e quello del maggiore, già vuoti.

Samuel guardò nella loro direzione e nessuno dei presenti osò contrastare la proposta del generale. In poco tempo prese anch'egli il calice dallo stelo sottile di cristallo e lo alzò, facendolo sfiorare delicatamente a quello degli altri che imitavano il suo gesto. "Ad Amelia."

"Ad Amelia." Ripetettero in coro gli altri. Il nome di sua sorella si mischiava a voci femminili e sconosciute, a toni rigidi e duri, vigili all'ordine e all'ubbidienza militare. In qualche parte, nella residenza di famiglia e sotto quel cielo, la sua adorata sorellina doveva essere già tra le braccia di Morfeo.

Dormi bene, principessa. Quando tornerò mi farò perdonare della mia assenza in un giorno così importante. Più o meno erano le stesse parole che aveva scritto nel telegramma che aveva inviato alla famiglia. Anche se troppe decisioni ancora celava dentro di sé, Samuel pregò Dio affinché quella nave giungesse in poco tempo a Liverpool. Le ore, a bordo del Lusitania, sembravano infinite.

Infinito sembrava poi il tempo in cui Lovett si era chiuso nella sua cabina. Tra le mani aveva il telegramma ingiallito partito da New York, con data e mittente. E una grande scritta rossa a lettere cubitali, cerchiata, segnava la parola: urgente. Le iridi verdi, scavate da non troppo profonde rughe che segnavano la sua età di cinquantotto anni, percorrevano a gran velocità quelle poche righe riportate sulla carta, sussurrandole al nulla come a volerle memorizzare. "A bordo c'è un traditore. Stop. Interrogare i soldati. Stop. John French non è a Liverpool. Stop. Non è stato fissato nessun incontro. Stop."

Il cuore smise di accelerare per un secondo, o almeno era quello che credeva il tenente. Si sentì quasi inerme, senza forze, mentre ricadeva sulla seggiola bianca in ferro dietro la scrivania. La cabina sembrava intrappolarlo in una morsa di dolore, seguita da una consapevolezza che via via si faceva sempre più nitida, vivente. Sembrava essere stato morso da un serpente. Il veleno agiva lentamente per permettere alla vittima di soffrire le pene peggiori prima del decesso. Lovett deglutì silenziosamente, abbandonandosi per un istante ai peggiori pensieri. Perché, chiunque fosse stato, li aveva fatti imbarcare? Il pensiero volò all'annuncio pubblicato un mese prima della partenza. I tedeschi non si prendevano responsabilità alcuna di ciò che poteva accadere loro una volta messo il piede nelle acque inglesi.

Maledizione!

Scattò in piedi, recuperando la lucidità che negli anni l'aveva scosso più di qualche volta e che, recentemente, l'aveva accompagnato anche nella battaglia di Mons. Spalancando la porta della cabina, si ritrovò faccia a faccia con il generale che l'aveva avvisato del telegramma arrivato. "Raduna la squadra sul ponte, soldato. Li voglio sull'attenti tra cinque minuti esatti." Ordinò, facendo dietrofront e tornando nella cabina. Aprì il baule posto affianco alla branda dove dormiva e tirò fuori la pistola che solitamente portava al fodero. Levò la sicura, incamminandosi a passo spedito per il ponte. A bordo del Lusitania non c'era posto per i traditori, ancor di meno se erano dei marines.

Cinque minuti dopo, come da ordini, se li ritrovò sull'attenti, in fila con le spalle rivolte al mare notturno, più inquieto del solito. Lovett passò a rassegna ad uno ad uno, con le mani unite dietro la schiena e la pistola che ondeggiava attaccata al fodero della cinta. Samuel Putnam era composto, la pancia in dentro, il petto in fuori e la mano portata alla testa. Il suo volto era privo di qualsiasi emozione, anche della paura. I suoi occhi scuri fissavano il vuoto davanti a lui e sembrava che niente potesse distoglierlo da quella posizione.

Squadrò Mendel, subito dopo di lui. Anche la sua espressione riuscì ad essere impassibile, senza emozione alcuna. La stessa cosa si poteva dire di Parker e Roges. Due erano le cose: o erano bravi attori, e potevano benissimo cambiare mestiere, o lo stavano fregando alla grande.

"Marines, vi ricordate il giorno in cui vi siete arruolati?" Iniziò Lovett, con tono autoritario e composto. Nessuno rispose. "Rispondete!" Esclamò ancora, alzando di poco il volume della voce. Fortunatamente nessuno passava di lì, in quel momento.

"Sì, Signore!" Si alzò il coro in aria con impeto e entusiasmo. Il cuore che martellava nel petto, la fierezza dello sguardo e l'orgoglio nell'indossare la divisa dei marines, protettori della loro patria, della loro bella e pulita America.

"Avete giurato di servire la vostra patria anche a costo della morte. Questa sera voglio sapere se siete ancora disposti a farlo."

"Sì, Signore!"

Lovett si fermò al centro, passando un veloce sguardo su tutti e quattro i soldati. Conosceva ognuno di loro, perché più delle volte si era ritrovato a dover collaborare nella squadra di Greyson dove c'erano anche quei soldati. La punta di diamante dei marines, venivano etichettati da tutti. Dalla tasca fece uscire il telegramma, facendolo sventolare davanti ai loro occhi.

"Il colonello Greyson mi ha mandato questo. Ovviamente non spreca il suo tempo per augurarci un buon viaggio, una vacanza piacevole perché non lo è, o di bere alla sua salute." Fece una pausa, stringendo le labbra e i denti. "Mi comunica che a bordo c'è un traditore ed io intendo trovarlo. Inoltre, mi annuncia che non c'è alcun incontro con John French, perché egli è ovunque tranne che a Liverpool." Tuonò ancora, osservando le reazioni sul volto dei suoi uomini. Nessuno mutò e se la notizia gli aveva sconvolti, erano così dannatamente bravi da farlo in silenzio, da pensare senza che le parole uscissero dalle loro bocche. Ma era proprio da uno di loro che pretendeva una parola, una confessione. "Io conosco ognuno di voi e mi si spezza il cuore solo al pensiero di un vostro tradimento. Perché non tradite solo la patria o i vostri compagni, ma anche voi stessi. Quindi mettetevi una mano sulla coscienza... e parlate. Non andrete a dormire finché il colpevole non sarà trovato."

Trevor Scott, il sottotenente che l'aveva avvisato del telegramma, si avvicinò a loro. Tra le mani aveva una pila di lettere e fogli e veniva direttamente dalle cabine dei soldati. Dopo che gli aveva ordinato di farglieli trovare lì sul ponte, gli aveva ordinato di guardare a fondo tra i loro effetti personali affinché trovasse una traccia, un indizio, qualcosa. Perché Lovett sapeva benissimo che nessuno dei soldati presenti avrebbe mai ammesso la sua colpa se non davanti a delle prove che l'avrebbero incastrato. Per la prima volta non aveva sospetti, lui, ma sapeva benissimo di poter escludere Scott. Per quest'ultimo, Lovett, era stato un secondo padre e non lo credeva possibile che fosse un traditore. Ci avrebbe messo entrambe le mani sul fuoco.

"Signore." Esordì il generale, avvicinandosi alla squadra che rimase sull'attenti.

"Vieni avanti." Lovett guardò poi i suoi uomini. "Riposo, soldati." E vide le braccia degli uomini ricadere lungo i fianchi, i muscoli del viso rilassarsi e la pancia rimessa fuori. In quell'istante si alzò un chiacchiericcio tra i quattro. Ipotesi, teorie, sgomento. Quello che era stato dentro di loro -per tutto il tempo in cui erano stati ibernati nell'ordine di essere composti- venne fuori in quel momento.

"Sono delle lettere indirizzate ad un certo Brandolf Wagner." Le pupille di Lovett si dilatarono all'udire il nome di quell'assassino, ora capo della polizia tedesca. Scott deglutì prima di continuare, con tono rammaricato: "Sono state trovate sotto la branda del sottotenente Roges."

Tutti gli sguardi furono indirizzati a quest'ultimo, quello di Lovett compreso.

Senza permesso, Roges osò prendere la parola per difendersi: "Tenente generale è un'accusa infondata! Non tradirei mai la mia patria e lei lo sa bene. Sono innocente!" Dichiarò il giovane, che non superava i ventidue anni, dinanzi a quelle accuse.

In sua difesa, anche Parker disse qualcosa: "E' vero, tenente generale. Io e Roges abbiamo passato quasi tutto il tempo insieme. Mi sembra impossibile poi che sia capace di patteggiare col nemico."

Lovett si trovò in mezzo a due fuochi. Ovviamente non aveva mai pensato che un ragazzo volenteroso come Ed Roges fosse capace di tradire. Ma la verità era ben più diversa. C'erano delle lettere ben precise, trovate sotto la sua branda, nascoste. La testimonianza a sua difesa, di Parker, lo faceva pensare. Anche quest'ultimo poteva essere un traditore? Troppo lo difendeva, così a spada tratta.

A chi doveva dar retta? Al cuore o alla mente da marines rigido che l'aveva portato a far carriera e a ricevere gradi e onori? Era lui al comando di quella squadra, era lui che era stato incaricato di occuparsi dei suoi uomini. Che fossero su una nave o alla base, era lui a dover dare l'ultima parola su tutto. Per i traditori, la soluzione era una sola: la morte. La patria non ammetteva patteggiamenti di nessun genere.

Ma doveva apparire saggio, giusto anche agli occhi dei suoi uomini. Quindi si rivolse ad uno degli uomini che, dopo Scott, ammirava molto: "Cosa ne pensate, brigadiere generale Putnam?"

Samuel incontrò lo sguardo di Lovett. Quest'ultimo riuscì a comprendere che, il giovane, era altrettanto incredulo dinanzi a quelle rivelazioni. Nessuno mai voleva trovarsi in una situazione del genere. Con il viso e il labbro tremante del giovane Roges, preoccupato per la sua sorte, al suo lato. Amichevolmente, il generale Parker diede una pacca sulla spalla del compagno, di squadra e di grado.

Non hai neanche ventidue anni. Si ritrovò a pensare il giovane Putnam, angosciato al pensiero della sorte che toccava ai traditori. Né un degno processo, né una degna sepoltura -perché nessuno avrebbe reso omaggio ad un marines che tradiva i suoi compagni- né fiori in boccio alla sua bara. Come l'anima, lui sarebbe stato solo, senza una spalla amica o un compagno di bevute. Le tante alla quale anche lui aveva partecipato.

Tirò aria fuori dalla bocca, incamerandone della nuova, e piantò lo sguardo serio in quello enigmatico del loro superiore. "Non ci sono prove sufficienti, tenente generale. Chiedo che il compagno Roges abbia diritto ad un regolare processo. In quanto egli non è un soldato semplice ma un sottotenente, Signore." In altre circostanze, e ne era sicuro, Roges si sarebbe buttato ai piedi di Putnam e gli avrebbe baciato le mani. Ma essendo appunto in circostanze ben più critiche, si limitò a piangere di gratitudine verso la buona parola per lui. Era certo che, tornato in patria, avrebbe avuto modo di manifestare quel malinteso perché di quello si trattava. Per colpa di quei sporchi crucchi aveva perso una madre, un fratello, e si ritrovava a dover campare un padre invalido che l'unico movimento che faceva era quello della bocca e delle braccia. Poteva darsi in pasto al nemico? Ovviamente no. Ma sarebbe stato curioso di sapere chi stava cercando di incastrarlo, solo per ucciderlo con le sue stesse mani.

Lovett rimase interdetto dalla richiesta del brigadiere generale Putnam. Sperò che quella decisione fosse dettata dalla ragione dell'ordine e non dall'amicizia che lo legava a Roges. Il tenente generale annuì. "Bene. Mi fido del tuo giudizio, Putnam. Vuol dire che è la scelta giusta."

Roges non smise di piangere, preso dal forte spavento. Che Dio l'assista, sembrava una donnicciola! Lovett ordinò a Scott di riporre quelle lettere nel fascicolo nella sua cabina. Gli avrebbe dato un'occhiata il giorno dopo. Senza contare che iniziava a sentire una gran fame ed era ansioso di sapere cosa avrebbero passato sugli eleganti tavoli della prima classe.

Alzò le braccia per ordinare di rompere le righe ma il maggiore Mendel avanzò. "Chiedo il permesso di poter parlare, Signore."

Lovett alzò un sopracciglio. Aveva qualcosa a che fare con quella storia? "Accordato, maggiore."

A quel giro, l'attenzione di tutti era per Cameron Mendel. Il soldato che era salito in picchiata fino al grado di maggiore, ben meritato a detta di tutti. Samuel era sicuro che Mendel avrebbe detto qualche parola in più a favore del giovane Roges, magari il nome del vero traditore o di chi stava cercando di incastrarlo. Il sorriso speranzoso, però, gli morì sul volto quando sentì le parole del maggiore.

"Penso che sia un errore attendere, Signore. Pensateci bene. Se Roges è veramente un traditore, noi stiamo portando con noi un collaboratore dei tedeschi. E se bene ricordo il codice militare, non c'è giustificazione o processo che tenga. Se sono state trovate delle lettere che testimoniano, in qualche modo, la sua alleanza a quella gente credo che non ci siano bisogno di altre prove. Il generale Roges è un traditore." Parole al veleno che colpirono, primo tra tutti, il diretto interessato. Il secondo fu Lovett, il terzo Putnam. Tutti rivolgevano a Cameron Mendel uno sguardo, ognuno aveva un'espressione diversa.

"Cam... ti prego. Tu non puoi credere a queste menzogne! Tu sai ciò che quella gente ha fatto alla mia famiglia. Aiutatemi, maggiore. Voi sapete la verità!" Ma il maggiore Mendel non gli rivolse neanche uno sguardo. Quello fu puntato solo ed esclusivamente su Lovett, che continuava ad alternarlo tra lui e Roges.

"Qual è la vostra proposta, maggiore?" Chiese Lovett, osservando Mendel. Un silenzio quasi surreale si levò per la fila dei soldati. Parker cercava di consolare Roges, dicendogli che sarebbe andato tutto bene, mentre Putnam guardava in modo sospettoso il maggiore. Non avevano legato molto. A parte l'incontro avvenuto giorni fa, non si erano più parlati, neanche per sbaglio.

"In quanto traditore, il generale Roges non può tornare in patria. Dobbiamo applicare ciò che il codice militare ci impone, tenente generale Lovett." Affermò Mendel con sicurezza, continuando a non guardare i suoi compagni. I suoi occhi chiari luccicavano nella poca luce del ponte creata dalle candele attaccate al muro degli edifici. Alle sue spalle, però, c'era solo oscurità.

"Aspettate!" Esclamò Putnam, giacché Roges era troppo impegnato a sibilare all'infinito la frase: sono innocente, lo giuro. Samuel si rivolse proprio al maggiore, escludendo Lovett dalla conversazione, come se non fosse lì. "Pensi davvero che Roges ci abbia traditi? Proprio lui, Cameron?" Sam sapeva che doveva esserci uno sbaglio, che Roges poteva essere tutto. Una donnicciola, piagnucolone, si lamentava in continuazione del troppo mare attorno a sé, ma non era un traditore. Anche lui poteva buttarsi direttamente nel fuoco con la certezza che non si sarebbe mai bruciato.

Benché Putnam avesse usato un tono confidenziale con lui, Cameron mantenne il suo modo formale. "Non lo penso, brigadiere generale, ne sono certo."

"E' una menzogna! Vi prego, tenente generale. Io non sono un traditore! Non potrei mai tradire la mia patria! Lo giuro sul mio onore di marines." Quasi urlò Roges, in preda alla disperazione, cadendo in ginocchio ormai allo stremo delle forze dinanzi a quelle accuse pesanti e difficili da mandare giù.

Putnam non disse nulla, ma si limitò a chinarsi con Parker per aiutare Roges a tirarsi su e a sussurrare frasi rassicuranti, neanche fosse un bambino svegliato di soprassalto da un incubo. Anche se in quel momento, Ed Roges, avrebbe voluto che fosse così.

Lovett osservò la scena, sentendosi stretto, ogni minuto di più. Ma c'era solo una cosa da fare e lui lo sapeva benissimo. "Potete rompere le righe, soldati." Disse a gran voce. Roges, per un attimo, sperò che fosse tutto finito. Il tenente generale credeva alla sua innocenza. I suoi capelli castani sembravano riprendere vivacità, così come il suo volto il giusto colorito. Riuscì a tirarsi in piedi, accanto a Sam e Parker che tirarono mentalmente un sospiro di sollievo. Mendel, dal canto suo, rimase spiazzato. Mentre i soldati iniziarono, a piccoli passi ad allontanarsi, Lovett aggiunse: "Tutti tranne il sottotenente Ed Roges."

I soldati si fermarono. Dietro di loro, Roges appariva di nuovo solo, tremolante.

"Andate." Concluse Lovett, intimando gli altri di proseguire.

Di loro, solo il maggiore Mendel ubbidì al comando, cominciando a camminare verso la sala dei ricevimenti della prima classe. Samuel e Parker rimasero per un istante ad osservare il compagno, che si teneva a distanza dal tenente generale. I due si guardarono per un istante, col cuore a mille. Un leggero vento estivo e notturno soffiò in quel momento sopra le loro teste. Dinanzi ai loro visi tumefatti di angoscia e rammarico, Roges frenò le lacrime e cercò di sorridere ai suoi compagni.

"Andate, soldati." Ripeté Ed, unendo le mani dietro la schiena. "Non temete per la mia vita. Sarà solo un'altra in mezzo alle altre. Nulla si saprà mai di me, solo due iniziali in un elenco di vittime di guerra. Nessuno piangerà. Dio mi è testimone e sono in pace con me stesso. Non sono un traditore e ho sempre onorato la divisa che indosso. Il tenente generale saprà quello che è saggio fare, ma sicuramente non quello che è giusto. Andate, soldati. Vivo o morto che sia, vi porterò nel cuore." In quel ponte, sul Lusitania, Ed Roges diceva addio alle armi, addio ai suoi compagni, addio al bel mondo e addio alla bella vita. Etichettato come traditore e morto come tale. Ma nel cuore di chi l'aveva conosciuto -come Sam e Parker- rimaneva un ragazzo saggio di soli ventidue anni. Troppo pochi per capire appieno come funzionava il mondo, troppo pochi per comprendere la durezza dei gesti e le parole delle persone. Trovò comunque la sua pace nel freddo mare, inghiottito dalle onde con un buco alla tempia. L'aitante ragazzo, desiderato da tutte le fanciulle americane, era morto come traditore ma altri non era che una delle tante vittime mietute dalla guerra.





Wolf's note:

*ripone la cassettina di fazzoletti nella scrivania*

Vi avevo avvisato che ci sarebbero state alcune lacrime, no? Uno dei pezzi forte di questa storia è proprio questo: le emozioni. Ma bando alle frasi filosofiche.. il nostro Ed Roges si classifica tra i primi personaggi (secondari) morti. Nel peggiore dei modi poi. Ma avrà fatto davvero la scelta giusta il nostro Andrew Lovett? Personaggio, per altro, che sarà utilissimo più avanti e avrà un ruolo di maggiore rilievo negli sviluppi della storia.

Premessa fatta... ringrazio tutti coloro che leggono e che mi inviano messaggi, pubblici e privati. Vi abbraccio forte tutti quanti! <3

Vi ricordo, inoltre, che per seguire gli aggiornamenti, le foto, le quotes, i video (e molto altro) sulle mie storie, vi invito a seguire o mette un bel "like" sulla mia pagina Facebook, al seguente link: https://www.facebook.com/lememoriediwolfqueenroarlion/ (cliccabile anche dalla pagina d'autrice qui su Wattpad).

Detto ciò... non mi resta che darvi appuntamento a Mercoledì 2 Maggio per il quarto capitolo. Voi vi chiederete: perché Mercoledì se tutti gli aggiornamenti sono stati fatti di Martedì? Semplice. Questo spostamento sarà solo per questa settimana, in quanto il 1 Maggio è festa. Dal quinto capitolo, gli aggiornamenti riprenderanno di Martedì come già deciso.

Quindi quale data dovete segnare sul blocco notes? Mercoledì 2 Maggio! 

Anticipazioni sul prossimo capitolo? Il compleanno della nostra piccola ribelle Amelia e molte emozioni... anzi... moltissime! Perché stiamo veramente per entrare nel vivo della storia. 

Vi aspetto Mercoledì per il prossimo aggiornamento! Non mancate!

Un abbraccio.

Wolfqueens Roarlion.

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