5. Benvenuti nella casa del mare!

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Molto tempo fa io, Barone Arcimboldo III D'Oneglia, ero un indovino estremamente sadico; ma non un sadico senza passione. Ero un sadico che infliggeva le sue "torture" alle persone attraverso delle previsioni considerate dalla maggior parte del popolo insignificanti. Facevo il mio lavoro non con una calma glaciale, bensì con una calma intrisa di ironia e di simpatia; cosa estremamente gradita al re Cosimo Giuliano VII.

Non conobbi mai nessun amante dello scherzo e dell'ironia quanto lo era quel grasso re. Sembrava vivere solo per scherzare. Comunicare una buona previsione apparentemente dilettevole e descrivergliela bene fu per molto tempo il modo più sicuro per mantenere un alto giudizio di me. Difatti non avevo lo stesso ruolo dei giullari di corte. No, di più! Per lui non ero nemmeno un indovino: per lui ero un buffone professionista, cosa che triplicava il mio valore ai suoi occhi.

Avvenne perciò che lui e i suoi sette ministri fossero tutti noti per l'incredibile capacità di scherzare sopra le mie predizioni. Questa cosa all'inizio mi infastidì non poco: insomma era pur sempre il mio lavoro e non doveva esser deriso per alcun motivo; poiché valido come tanti altri nobili mestieri. Eppure poi cominciai a godere del riso del re e dei suoi ministri, che più aumentava più rendeva le predizioni terribili e angosciose.

I sette ministri somigliavano tutti al re anche nell'essere grassi, massicci e burloni inimitabili. Se poi c'era qualcosa nel grasso che predisponeva loro a certi insulsi scherzi da ebeti, non riuscii mai a capirlo. Una cosa però era certa: nella curiosa cittadina dove abitavo un burlone magro era un rara avis in terris [¹].

Quanto alla conoscenza, il re se ne preoccupava molto poco rispetto a me. Per questo deliziavo il mio animo ogni volta che quegli avvertimenti, i quali a prima vista risultavano privi d'importanza, puntualmente avvenivano e, per mio grande piacere, erano anche piuttosto tragici.

Una volta previdi una settimana di disgrazie a Corte. Così accadde! E gli inspiegabili danni che subì la reggia furono eccessivamente incantevoli per me! Insomma dovevo pur sentirmi fiero di aver fatto crollare dalla sera alla mattina il palazzo reale in una crisi di senilità!

Delle profonde crepe penetrarono i muri e le colonne della reggia. Sbucarono da queste spaccature dei fiorellini gialli, gli stessi che poco dopo trovò il re Cosimo nel bicchiere in cui era immersa la sua dentiera. Le ampie distese del terreno di corte vennero cosparse di erbacce talmente alte e sconce che rovinarono radicalmente le statue dei giardini curati. Poi, senza i mezzi adeguati per frenare la prepotenza di quelle disgrazie, molti servi di corte e molte donne delle pulizie passarono le giornate nelle stanze a raccogliere le schegge dei piatti di ceramica caduti a terra, e a scacciare le lucertole che sarebbero poi ritornate di notte.

Una mattina due dei cento servi di corte videro che sul pavimento della loro stanza vi erano tante piccole formichine rosse. Cercarono prima di ucciderle con l'insetticida, poi con la calce e infine con la scopa; ma il giorno dopo erano ancora nello stesso luogo, che camminavano ovunque anche se i ragazzi scopavano e spolveravano tre volte al giorno la camera. Allora, presi dalla disperazione, portarono con sé le cose più importanti e fuggirono dalla reggia.

Tutte queste irreparabili disgrazie erano semplicemente pane per i miei denti, e mi fecero ridere molto e di gusto! La forza del mio sadismo, l'attrattiva che avevo nel far soffrire gli altri, nasceva e consisteva nel piacere vietato di poter sottoporre le persone ad una forte violenza, ma solo e unicamente con le mie mani. Consisteva dunque nella capacità di prevedere sfortune che erano oggetto di sanguinosa e dolorosa beffa agli occhi della gente, che però alla fine non aveva la possibilità di difendersi in alcun modo da essa.

Ma, ahimè, avvenne il giorno in cui il re e i suoi sette ministri si stancarono di tutto quel mio dannoso sadismo e decisero di prendere, per la prima volta, dei provvedimenti.
Un mese dopo il disastro sovrannaturale, trovai davanti alla porta d'entrata della mia villa una lettera firmata dal re:

"Egregio Barone Arcimboldo III D' Oneglia, vista l'ennesima situazione eccezionale verificatasi nella nostra cittadina a seguito del suo ultimo presagio, la condanno alla cessazione obbligatoria del suo potere di indovino mediante l'applicazione di una speciale formula che prevede la rimozione di uno dei suoi occhi. Considerata comunque la notevole compagnia fatta in questi anni, le concedo di non pagare le esorbitanti somme di risarcimento per i danni del palazzo reale, anzi: se si sottoporrà a questo breve intervento domani mattina alle undici, in cambio assumerete cinque dei cento servi di corte.


Altrimenti dovrà risarcire tutti i danni. Cordiali saluti

Vostra Maestà Cosimo Giuliano VII„

La pergamena scivolò dalle mie mani e cadde a terra. Mi sentii sprofondare. L'incubo fatto realtà del furto delle mie necessità. Com'era possibile una cosa del genere! Come potevo abbandonare il mio amato lavoro dopo ventisette lunghi anni! Ma soprattutto come aveva scoperto quella formula che per molto tempo fu per me un temuto segreto da nascondere a tutti i costi, perché costituiva una mia possibile rovina! Fu quindi per me una vera e propria tortura cominciare a indossare quella scomoda e stretta benda nera sull'occhio malsano.

Ogni volta che toccavo l'occhio sinistro provavo una forte riluttanza; ma non perché mi desse fastidio o mi prudesse. Perché toccandolo mi veniva in mente sempre la stessa riflessione: perché il re e i suoi sette ministri non riuscivano, non si sforzavano di capire loro stessi e si lasciavano abbandonare ad una superficialità assoluta? Quanto più mi imponevano involontariamente di mascherare, di velare le mie predizioni, tanto più temevano dentro di loro l'avvento di qualcosa di catastrofico che li avrebbe rovinati a vita. Ma allora per quale dannato motivo non assecondarono le richieste della loro anima e non mi cacciarono prima da corte? Era nota in tutta la Contea la mia sadica passione! In sostanza, nella mia interiorità regnava la più totale confusione. Confusione che i miei nuovi cinque servi cercarono di sciogliere, di districare.

I miei cinque servi erano dei ragazzi che potevano avere pressappoco quattordici anni e ben presto mi affezionai così tanto a loro che diventarono gli unici sui quali non scatenai la mia furia "sadico-comica". Dedicavano le mattinate a radermi, a farmi massaggi con asciugamani caldi, a tagliarmi e a pulirmi le unghie delle mani e dei piedi, a profumarmi con acqua di lavanda. Parecchie volte, al calar della sera, riempivano la vasca di bagnoschiuma splendidi dalle fragranze delicate; e io galleggiavo nella tinozza respirando quell'effluvio, con la mia confusione nella testa derivata dalla nostalgia della mia passione perduta.

Ma dopo il lungo bagno di meditazione, quella sensazione di sconfitta scompariva, lasciando posto a grande diletto: i cinque servi mi asciugavano, mi incipriavano il corpo e mi vestivano degli abiti più pregiati.
Quei ragazzi erano la mia unica fonte di felicità, ma non per quelle sorte di riti quotidiani, bensì per la loro complicità e per la loro empatia: compativano infatti la repressione di quella mia sadica e attraente passione.

E li amai ancora di più quando un pomeriggio, mentre stavamo in sala da pranzo, esternarono il piano di una vendetta gravosa all'atto iniquo del re e dei suoi sette ministri. Rimasi piuttosto sorpreso del fatto che dei ragazzi così innocenti potessero conoscere talmente bene le leggende di corte tanto da progettare, in base ad esse, un piano malefico come quello.

«Questa è una terribile, orribile, incredibilmente sciocca idea. Facciamolo e vediamo cosa accade» disse uno dei servi; poi lo stesso ragazzo mi chiese:
«Sei spaventato?»
Avevo un'espressione piuttosto preoccupata. La prima volta che i miei servi mi dissero cosa avevano in mente provai uno strano orrore, ma velai l'orrore da un avvilimento, da una tristezza che pur piegava le mie labbra a un sorriso vano. Eppure cancellai i segni di quella preoccupazione dal mio volto con l'espressione da sadico dei tempi di indovino:
«No! Questo progetto è estremamente eccitante e divertente» mi voltai di spalle ai ragazzi:
«Ci divertiremo molto»

Un divertimento tradizionale, normale, si distingueva da un divertimento sadico - come quello sopracitato - soprattutto in questo: mentre un divertimento sadico poteva essere ricco in genere di eccitazione e di fervore, un divertimento tradizionale era fine a se stesso ed era sempre accompagnato da un'ottusa monotonia. Invece in quel momento una forte esaltazione m'annebbiava la mente:
«Ragazzi, voglio che questa vendetta venga attuata questa notte stessa, non posso aspettare di più!»
Uscimmo precipitosamente dalla villa - si stava facendo tardi - per mettere subito in atto la vendetta.

Il re e i suoi sette ministri in quei giorni si erano stabiliti in una nuova villa, diversa dalle altre poiché essa non era sul mare; bensì nel mare, retta da possenti palafitte. Altrettanto possente era la presenza degli spiriti che divampavano nella casa a notte fonda, e si intrufolavano nelle menti delle persone sveglie nell'oscurità della casa, le quali morivano dopo momenti di agonia e disperazione. Il suono stridulo del mio violino avrebbe causato la morte del re all'istante!

Quella stessa notte io e i miei servi noleggiammo una modesta barca al porto e raggiungemmo la casa infestata. Essendo il mare molto mosso, facemmo molta fatica per remare e arrivammo davanti all'abitazione bagnati dalla testa ai piedi. Lì cacciai fuori il piccolo violino che avevo nascosto sotto il panciotto. I ragazzi quatti quatti si misero accanto a me. Suonai la prima nota tagliente e delle goccioline di sudore cominciarono a rigare il mio volto e la mia schiena. Continuai a suonare e ad ogni nota il calore divampava in ogni parte del mio corpo, nonostante avessi i vestiti intrisi di acqua marina e sentissi i granellini di sale sotto i miei piedi.

Quando finii di suonare quella melodia astratta ero sudatissimo e agitatissimo. E se fosse andato tutto a rotoli? E se il re non fosse nella villa ma dietro di noi, deridendo insieme ai ministri lo spettacolino assurdo che stavamo facendo? Avevo tanto bisogno di togliermi la giacca per liberarmi da quel forte calore e da quei pensieri pessimisti, ma non feci in tempo poiché fui costretto a nascondermi insieme ai miei servi al lato anteriore dell'abitazione.

Ma fu inutile: fummo travolti dalla violentissima potenza dei pianti disperati, delle urla assordanti e di un vento così potente che sembrava provenisse dal punto estremo della Terra. Ritornammo davanti alla villa, le urla erano sempre più disperate, più forti, più agonizzanti fino ad affievolirsi, ad appassire in un sussurro, un bisbiglio fino all'assoluto silenzio. Ma il silenzio ci fu solo per pochi istanti, lasciando posto a quel terrificante vento di maestrale, che risucchiò i cinque ragazzi alľ interno della villa.

Mi chinai a terra e mi coprii il volto con entrambe le mani.

Fu un attimo, ma l'eternità. Vi sentii dentro tutto lo sgomento delle necessità rubate ingiustamente, delle cose che non si possono mutare; la prigione del tempo; la catena delle cause e tanti altri orrori della vita di ogni giorno.
Ma ormai era troppo tardi, gli spiriti possenti già accoglievano i miei cari con la frase che avrebbe tormentato la mia esistenza per sempre:

«BENVENUTI NELLA CASA DEL MARE!»

[1]
Rara Avis
(Giovenale, Satire VI, 165)
E' l'inizio del verso di Giovenale che chiama una donna bella e pudica: Rara avis in terris, nigroque simillima cycno, uccello raro sulla terra, simile a un cigno nero.
Sinonimo di questa locuzione è mosca bianca che significa appunto persona o cosa rarissima.
La locuzione latina viene spesso adoperata per indicare cosa o persona molto rara o che ha qualità particolari: in questa società un uomo onesto è veramente una rara avis.

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