Capitolo 36 - L'Ora Zero

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Sono tuo fratello. Sangue del tuo sangueMi ero ritrovata a dover lottare tra ragione e sentimento e alla fine avevo azzerato qualsiasi cosa. Avevo impugnato l'arma e gliela avevo puntata contro. Avevo aspettato, avevo atteso che si addormentasse per colpa del farmaco che gli avevo iniettato, come unico segno di clemenza verso i suoi confronti, e avevo portato le dita sul grilletto. Avevo sparato, lo avevo fatto.

E ora qui, in ginocchio, al suo fianco stavo ancora cercando di realizzare quello che ero stata capace di fare. Lo fissai mentre era disteso e immobile sul terreno di questo schifo di seminterrato e sentii una certa pace diffondersi dentro di me perché ora era finita davvero. Avevo dovuto sacrificare me stessa, i principi e i valori in cui ogni persona credeva ma sapevo che era l'unica cosa che potevo fare. Non avrebbe mai smesso e glielo avevo letto negli occhi insieme alla sua follia pura. Guardandolo rividi lo stesso ragazzino con cui ero cresciuta ma nei fatti eravamo completamente due estranei. Pochi anni d'inferno insieme non significavano nulla, così come il sangue che ci scorreva nelle vene. Non l'avrei pianto perché non era il momento. Lo avrei fatto alla fine ma non per lui, per la mia anima che avevo inevitabilmente compresso macchiandomi della sua morte.

Mi sollevai tremolante sulle mie stesse gambe e andai alla ricerca della pala che i precedenti proprietari avevano lasciato e scavai nel terreno che avrebbe dovuto far cementare lui stesso. Fu più faticoso del previsto ma l'adrenalina che avevo in corpo mi diede la forza per finire il lavoro il più in fretta possibile. Non doveva essere profonda, doveva solo bastare per contenerlo. Lo trascinai all'interno e nel farlo ripensai inevitabile a Patrick, sentendo la nausea risalire dalle mie viscere.

Ora non avrei più saputo che cosa fosse stato capace di fargli e su come si erano svolti i fatti alle mie spalle quella notte, ma forse era meglio così.

Mi venne in mente che non avevo controllato le tasche e, dopo un attimo di esitazione, lo feci. Non trovai nessun telefono che era la mia preoccupazione maggiore ma in una tasca interna, vi trovai qualcosa che mi destabilizzò: una fotografia, mia e sua. Ero abbracciata a lui e gli sorridevo mentre invece un James ragazzino guardava l'obbiettivo con occhi vacui. La vista mi si appannò e così, in fretta, me l'infilai in una tasca dei pantaloni per impedirmi di avere un crollo. Gettai insieme a lui la pistola e la siringa, per poi ricoprirlo con la stessa terra che aveva osato calpestare con l'inganno. Per ironia della sorte era morto in un seminterrato e per mano mia, proprio com'era successo tanti anni addietro solo a ruoli invertiti. Mi aveva praticamente uccisa in quell'orrenda casa in cui ero nata e allora era solo un bambino.

Mi sollevai a lavoro quasi terminato e grondante di sudore da far schifo. Esausta ma con un peso in meno sul cuore: non avrebbe più fatto del male a me, non avrebbe più fatto del male a nessuno e forse se continuavo a ripetermelo, un giorno avrebbe fatto meno male.

Lasciai la pala dietro la scala perché mi sarebbe servita per seppellire il gatto nel mio giardino e poi me ne sarei sbarazzata. Salii le scale con tutta l'intenzione di lasciarmi alle spalle questa storia per sempre. Mi riempii un bicchiere di liquido ambrato e me lo portai dietro con me. Dovevo assolutamente lavarmi, ero sporca di terra, fango, e avevo l'odore addosso di polvere da sparo, così come un pesante sentore di morte.

Sotto il getto dell'acqua sfregai con attenzione maniacale per paura che rimanesse qualche traccia o semplicemente perché volevo cancellare la mia colpa. Mi appoggiai alla vasca per sorseggiare l'alcol che mi ero versata, perdendomi in un letargo apatico. Mi aiutò a non crollare in un pianto disperato per le immagini che continuavano a comparire davanti ai miei occhi, così come anche le sue parole, perché ero più che sicura che quel sono tuo fratello mi avrebbe tormentato per l'eternità.

Suonarono alla porta e credetti di essermelo immaginato. Poi udii qualcuno bussare con veemenza e mi alzai incredula.

Non poteva essere!

Corsi verso la camera da letto per indossare una vestaglia e a gran passo mi diressi verso la porta.

Perché era qui?

Tremai in risposta e sentii che stavo per dare di matto perché non potevo farlo entrare in casa, quell'uomo era più furbo di una volpe e non ci avrebbe messo molto a capirlo. Ero confusa e terrorizzata ma alla fine aprii, cercando di rimanere impassibile.

Ce la potevo fare, dovevo solo mantenere la calma.

Guardai Jonathan e lui fece lo stesso sorpreso di vedermi e mi scandagliò dalla testa ai piedi, lasciandomi perplessa. Incrociò i nostri occhi ed ebbi paura che potesse leggervi dentro la mia colpevolezza ma l'unica cosa che invece mi chiese fu un'altra. «Stai bene?» il tono gli uscì titubante e non esitò un attimo a portare lo sguardo alle mie spalle nervoso.

Se stavo bene?

Non lo sapevo o meglio non mi ci ero ancora soffermata a pensarci né avrei voluto farlo, così evitai di rispondere alla sua domanda. «Che cosa ci fai qui? Credevo non avessi tempo per la sottoscritta.» Cercai di apparire dura ma la voce mi tremò e sentii il mio battito accelerare sotto il suo sguardo.

«Mi sbagliavo, Vivienne.» Lo fissai presa in contropiede dalla sua ammissione, visto che non mi aspettavo che avrebbe cambiato idea su di noi così in fretta. Mi appoggiai alla porta e lo rimirai per abituarmi all'idea, poi se ne uscì con qualcosa che sgretolò i miei pensieri. «Crawford è stato qui?»

Mi tesi in risposta e ci volle tutto il controllo di cui ero capace per non scappare a gambe levate. «No. Che sta succedendo, Jonathan?» non riuscii a capire che cosa lo avesse spinto a venire a bussare alla mia porta con tanta agitazione e lui sembrava intenzionato a non dirmelo. L'unica cosa che sembrava voler fare era quella di studiarmi analiticamente. 

«Vorrei tanto saperlo anche io.» Non disse altro, lasciandomi sospesa. Tutto a un tratto pensai che se fossero venuti a fare domande avrei avuto bisogno di un alibi, ed era una pazzia, ma capii di avercelo proprio davanti. Lo invitai in casa e accettò immediatamente.

Camminando verso il soggiorno, passammo davanti alla scala ed ebbi quasi un mancamento nell'immaginare che se solo avesse avuto l'idea di scendere per dare un'occhiata, sarebbero stati guai seri: era tutto coperto ma c'erano ancora fin troppi indizi che non sarebbero sfuggiti a un occhio esperto come il suo.

Inspirai a fondo e cercai di fingere che fosse una giornata come tante, ma quello che non avevo messo in conto era che il mio corpo mi tradì. La tensione accumulata, la paura e la disperazione che avevo provato nel ritrovarmi James in casa, così come quello che mi aveva portata a fare o semplicemente il rivedere Jonathan proprio in questo momento, finirono per rivelarsi troppo per una come me che aveva sempre cercato di soffocare le emozioni. Crollai, sentendo le forze venire meno e scoppiai in un pianto liberatorio senza riuscire a contenermi e probabilmente si sarebbe tramutato in un attacco di panico se Jonathan non fosse intervenuto a gestire la situazione; infatti, non appena mi strinse tra le sue braccia ritrovai l'equilibrio necessario. «Tranquilla, si sistemerà tutto vedrai.» 

Mi lasciai cullare dalle sue parole confortanti e i singhiozzi si placarono, mi vergognavo di me stessa e di quello che avevo fatto e questo era stato il risultato.

Mi ridonò il sorriso senza neanche farmi capire come ci fosse riuscito e, dopo avermi dato un bacio sulla fronte, se ne andò lasciandomi più scombussolata di prima. Avevo udito le sirene e mi ero immobilizzata per paura che fossero venuti per me ma mi aveva subito tranquillizzata sul perché fossero lì, anche se ancora non sapevo che cosa fosse successo per mobilitare l'intero dipartimento. Non ci volli pensare per il momento, così come per tutto il resto e una volta sola in casa, mi lasciai scivolare a terra svuotata di tutto: la vendetta era un'arma a doppio taglio e avrei preferito non averla compiuta, perché il peso ora l'avrei dovuto portare solo io. James aveva smesso di soffrire per un passato che lo aveva segnato più del previsto, facendogli perdere totalmente la ragione, mentre a me nessuno mi avrebbe mai tolto questo fardello.

Ero un'ipocrita perché ero fuori controllo tanto quanto l'uomo che aveva osato definirsi mio fratello, quando in realtà aveva sempre voluto tutt'altro, ossessionato da qualcosa che la stessa natura non concepiva.

Scesi le scale e una volta arrivata a destinazione, presi un telo in cui avvolgere il gatto e lo sollevai. Afferrai la pala e mi diressi verso il giardino, uscendo dal retro per evitare occhi indiscreti. Scavai la seconda buca della giornata ma questa volta inzuppandomi delle mie stesse lacrime, lo feci in silenzio e una volta finito, ve lo depositai. M'inginocchiai e strinsi la terra tra le dita con rabbia, lo ricoprii prima di tornare in casa per pulirmi e per lavare gli oggetti utilizzati con minuzia.

Chiamai una ditta di ristrutturazioni, come avrei dovuto fare fin dall'inizio e sborsai abbastanza soldi perché completassero i lavori in fretta: dovevo ricoprire il mio crimine perché nei fatti era questo che era. Avevo ucciso e ancora stentavo a crederci, le mie motivazioni erano sensate conoscendo la pazzia in cui era avvolto James, ma non ero convinta che le ragioni per cui lo avevo fatto fossero altrettanto giuste. Ormai però era troppo tardi per i ripensamenti e l'unica cosa che avrei potuto fare era quella di andare avanti come se tutto ciò non fosse mai avvenuto.

Accolsi i lavoratori nel corso del pomeriggio e li feci partire dalla cementazione, assistetti alla procedura e lo guardai scomparire sotto un metro di cemento.

Non dormii nulla e il giorno dopo si ripresentarono per proseguire i lavori. Era finita ma non mi diede la soddisfazione che avevo tanto agognato e quando alcuni giorni dopo mi comparvero sulla porta dei poliziotti con un mandato di perquisizione, non mi opposi e li lasciai entrare senza un minimo di preoccupazione. Al termine, m'invitarono a seguirli in centrale e lo feci con malavoglia, non sapendo che cosa mi si prospettava ma lo capii presto quando, una volta arrivata, mi si parò davanti la Rupert.

Forse era l'unica che mi aveva vista per quello che ero davvero, ma non avrebbe mai avuto nulla in mano e lo sapeva.

Mi condussero nella stanza degli interrogatori e quest'ultima mi si sedette di fronte, iniziando le sue domande alquanto irritanti ma non mi scomposi perché ormai non avevo più nulla da perdere. «Mi ha fregata fin dall'inizio.» Un sorriso amaro comparve sulle sue labbra e la fissai fumando la sigaretta che gentilmente mi avevano fatto avere. «Entrambe sapevamo che Crawford fosse capace di qualsiasi cosa ma con lei tornava un bambino cieco e idiota, si fidava di lei e scommetto che non è stato difficile pugnalarlo alle spalle, letteralmente.» Rimasi in silenzio, rivivendo quei momenti che mi avevano segnata per l'eternità. «Non ha mai avuto intenzione di ottenere da lui una confessione o di farlo parlare, perché lui sapeva, giusto? Sapeva qualcosa che la riguardava ed è per questo che se n'è liberata.» Non reagii e l'agente sbuffò nervosa visto che era già una buona mezz'ora che stava andando avanti con questa specie di interrogatorio senza uscita. «Facciamo così, ti mando dentro un altro agente. Forse con Walker diventerai più collaborativa.» Alzai gli occhi su di lei e sorrise vittoriosa. «Sai, Walker non è uno che prende un tradimento alla leggera e scommetto che, tutta questa storia, non gli farà per niente piacere. Sapere che l'hai usato per i tuoi sporchi ed egoistici interessi. Che lo hai manipolato, facendogli credere che il bambino fosse suo solo per portarlo dalla tua parte emotivamente, non la prenderà per niente bene. Perché la prima cosa a cui penserà sarà proprio questa: che lo hai ingannato fin dall'inizio nello stesso identico modo con cui sei solita farlo con chiunque.»

Le mani mi tremarono ma fui brava a nasconderle sotto il tavolo; aveva colpito nel segno, l'unica cosa che temevo era quella di perderlo e sapevo che tutta questa storia non l'avrebbe digerita, nessuno avrebbe potuto e sentii il vuoto propagarsi dentro di me. Non erano i problemi a essere finiti, ma la mia vita.

Guardai la Rupert uscire dalla stanza e quando sentii la porta chiudersi, mi portai una mano alla pancia per cercare un po' di conforto da quel piccolo esserino che era stato testimone delle colpe di sua madre. Mi resi conto della sigaretta e mi vergognai di me stessa, come madre, per non riuscire a smettere con i miei vizi neanche in quest'occasione ma non potevo farne a meno, avevo i nervi a pezzi.

Sentii la porta scattare e alzai lo sguardo, pensando di rivedere la Rupert, ma non fu lei a varcare l'ingresso, bensì l'uomo che adesso rappresentava il mio peggior incubo; non avevo il coraggio di affrontarlo e forse non l'avrei mai avuto.

Si sedette di fronte a me e non mi piacque per niente lo sguardo che mi diresse. Fissai i suoi occhi color ghiaccio e mi preparai al peggio. Lessi la tempesta che vi si agitava e gettai una rapida occhiata verso la porta desiderosa di correre fuori, il più lontano possibile da lui. «Dimmi che non è vero.»

Incastrai gli occhi nei suoi e un sudore freddo mi colse. «Che cosa non dovrebbe essere vero?»

«Non prenderti gioco di me. Non osare farlo» mi punse sul vivo. Lo fissai adirata mentre Jonathan provava a mantenersi impassibile ma i suoi occhi esprimevano tutt'altro: era ancora una volta in guerra con sé stesso, perché non sapeva che cosa fosse giusto fare e la colpa era solo mia. «Voglio la verità, la pretendo o almeno me la devi.» Non distolsi lo sguardo dal suo, non volevo cedere al gioco di forza che stava cercando di esercitare su di me. Negai e un fremito di rabbia improvvisa lo colse così, allungandosi in avanti, mi strappò la sigaretta di bocca. «Abbi rispetto almeno del bambino che porti in grembo, visto che è evidente che di quello che abbiamo avuto non ce l'hai.»

Mi pietrificai di fronte alle sue accuse. «È facile giudicare quando si è dall'altra parte, no? Non ti devo la verità perché è più che evidente che sei già lì pronto a giudicare le mie azioni senza remore» ribattei. «Nella tua testa mi hai già condannata ed è questo a fare più male. Forse quello che non ha rispetto per quello che abbiamo avuto sei proprio tu, perché io non ti avrei mai fatto il terzo grado né tanto meno ti avrei mai puntato il dito contro per qualcosa di cui non si ha certezza.»

Inspirò a fondo. «Vivienne, ascoltami attentamente: voglio costruire una vita con te e nostro figlio ma per farlo voglio tu sia sincera. Solo questo.» 

Solo questo? Mi trattenni dal ridere perché quello che mi stava chiedendo non era possibile: c'erano parti del mio passato che non avrei mai avuto il coraggio di raccontare neanche al mio peggior nemico, figurarsi se potevo essere sincera su quanto era avvenuto pochi giorni fa e per mano mia.

«Ti ho supplicato di restare con me e non l'hai fatto, ora prenditi le tue responsabilità.» Serrò le mascelle e notai una strana luce attraversare i suoi occhi: colpa, pentimento e rabbia per una situazione che ci era inevitabilmente sfuggita di mano. «Mi hai lasciato sola, Jon», sussurrai a bassa voce ma lo udì benissimo e indietreggiò sulla sedia, ferito. 

Restammo in silenzio per diversi attimi, lasciando che le mie parole facessero effetto nei nostri animi.

Era proprio così: mi aveva lasciato da sola quando lo avevo espressamente supplicato di non farlo e avevo commesso una pazzia. Un azzardo, una follia vera e propria, ma ero più che consapevole che la parte più recondita di me sarebbe sempre stata più che soddisfatta di quello che ero arrivata a fare, perché così avrei potuto dormire sonni tranquilli.

Glielo avevo chiesto anche nel parcheggio poco prima che imboccassi la strada sbagliata, lo avevo avvertito che non potevo essere lasciata da sola perché avevo paura di quello che avrei potuto fare ma evidentemente non mi aveva ascoltata. Ero stata sincera, mi ero aperta, ma non era servito e me ne aveva data la prova davanti a casa mia.

Si alzò scosso dalla conversazione e seguii ogni sua mossa desiderosa di fare altrettanto, sarei voluta correre tra le sue braccia ma ormai era ovvio che non me lo avrebbe più concesso. «Non ti lascerò più sola se mi dirai la verità. Voglio poter sapere anche io se è finita o meno. Se c'è un pazzo in giro che cercherà ancora di violentarti o chissà che altro. Un pazzo che sarebbe ancora disposto a uccidere chiunque osi avvicinarti a te, perciò, ora me la dirai, altrimenti mi avrai perso davvero per sempre.»

Presi consapevolezza della sua minaccia velata ed esitai indecisa sul da farsi. «Da come mi stai parlando sembra quasi che tu ti sia dimenticato che la vittima di tutta questa eterna storia sono io.»

«Non l'ho dimenticato.» Il suo sguardo mi disarmò. «Ma lo sono anche tutti quelli che ci hanno rimesso o che ci potrebbero rimettere per il tuo silenzio, perciò voglio sentire dalle tue labbra se sei stata costretta a farlo.»

Deglutii e abbassai lo sguardo. Jonathan interpretò male il mio silenzio e si avviò verso la porta. Per paura che se ne sarebbe andato per non fare più ritorno, mentii o meglio risposi correttamente alla sua constatazione. «No, non l'ho fatto.» 

Si voltò verso di me e mi studiò con attenzione.

Era vero non ero stata costretta a farlo, né per difesa o per altro. Lo avevo fatto perché ero arrivata all'estremo. Volevo chiudere con il mio passato e quella mi era sembrata l'unica soluzione e guardandolo, sapendo quando fosse forte il suo senso di giustizia, temetti di essere giudicata per quello che davvero ero. Temetti che potessi capire che la mia menzogna aveva vita breve e temetti che non mi avrebbe creduta.

Uscì dalla stanza, lasciandomi da sola e avrei tanto voluto mettermi a urlare o a piangere come una dannata per lo stress a cui ero stata sottoposta ma non feci nulla di tutto ciò perché sapevo che al di là del vetro fossi tenuta sott'osservazione.

Dopo un po' di tempo, finalmente mi concedettero di andarmene e una volta varcata la porta di casa, mi sentii l'inferno sotto i piedi e affiorarono i sensi di colpa. Non sarei più potuta restare lì e lo sapevo bene, così per tenermi impegnata mi misi subito all'opera. Preparai qualche scatolone con la poca roba che avrei portato via con me e sistemai la casa quel poco perché si conservasse bene nel tempo. Non l'avrei venduta e, di certo, non ci avrei fatto ritorno ma l'avrei tenuta per ricordarmi chi ero e che cosa ero stata capace di fare tra queste mura.

Cercai su internet una località che facesse al caso mio, una cittadina piccola e sperduta sul mare che mi avrebbe donato quella tranquillità e quella pace che per tanto mi era stata negata e quando finalmente la trovai, sospirai soddisfatta. Ora rimaneva solo da trovare una casa affittabile o acquistabile e poi sarei potuta partire con il mio piccolo bambino. Gli avrei comprato una bella casa, con un giardino sul mare così gli avrei donato un'infanzia meravigliosa: si meritava il meglio a differenza mia. E una volta conclusa la mia ricerca, finii di caricare l'auto usata che avevo comprato per l'occasione e mi ritenni pronta per partire.

Ero intenta a dare un ultimo saluto alla casa, quando qualcuno venne a bussare alla mia porta. Esitai ad andare ad aprire perché sinceramente non avevo più le forze di affrontare nessuno. Guardai un'ultima volta la fotografia che tenevo in mano, per poi appoggiarla sul mobile dell'ingresso. Un leggero nervosismo mi colse e, sfregando le mani sui jeans che indossavo, mi avviai ad aprire.

Con un muso lungo e la coda tra le gambe c'era l'uomo che mi stava privando di tutto senza neanche rendersene conto e, guardandolo perplessa dalla sua visita inaspettata, lo lasciai entrare. Mi soffermai solo dopo sull'auto di pattuglia che era posizionata ancora davanti a casa mia per tenere sott'occhio la mia abitazione e qualsiasi possibile movimento sospetto che avrebbe potuto mettere in pericolo la mia incolumità e mi venne da sorridere. «Vivienne...» chiusi la porta e mi voltai verso Jonathan. «Non sono riusciti a trovarlo da nessuna parte, sembra quasi che sia scomparso dalla faccia della terra.» Abbassai lo sguardo senza sapere che cosa dire, così preferii tacere. Mi si avvicinò. «Faranno il possibile per trovarlo, non è ancora detta l'ultima parola.» Lo guardai e tutto perse d'importanza, mi dimenticai di tutti i miei problemi. Senza esitazioni e con coraggio annullai la distanza che ci separava per stringermi a lui. Esitò preso in contropiede dalla mia reazione ma, poco dopo, ricambiò avvolgendomi con le sue forti braccia.

Ecco dove volevo stare, qui tra le sue braccia al sicuro e lontano da ogni nefandezza.

Mi ero legata a lui indissolubilmente senza neanche rendermene conto: aveva conquistato secondo dopo secondo, nel tempo passato insieme, piccole parti del mio cuore finché non era diventato suo e così come lo aveva riportato miracolosamente in vita, così lo distrusse in pochi attimi.

Interruppe il nostro abbraccio con lo sguardo fisso alle mie spalle e mi pose una domanda che mi diede la certezza che lui era arrivato alla verità con la lettera maiuscola. Aveva collegato i pezzi del puzzle e ora aveva il quadro completo: il quadro mio e delle mie azioni e mi sentii morire. Non per il fatto che lo sapeva ma per lo sguardo che m'indirizzò, perché il modo con cui mi stava guardando mi spogliò di tutto e mi terrorizzò. Non mi aveva mai guardata così e non credevo di meritarlo. Non da lui, non dopo quanto aveva detto di provare nei miei confronti.

Che fosse un bugiardo come tutti gli altri? No, era solo troppo da sopportare e lo capivo perché alla fine mi facevo ribrezzo da sola.

«Iniziavo a crederci, Jonathan.» Abbassò i suoi occhi azzurri su di me e mi sentii persa perché lessi la confusione e la contraddizione che li caratterizzavano. Era combattuto e mi fece male perché compresi che lo stavo perdendo, aveva soffocato i sentimenti e stava lasciando prevalere la ragione e contro di essa non avrei mai potuto vincere. «Credevo davvero che potessimo ricominciare.» La voce mi si spezzò e alcune lacrime sfuggirono dai miei occhi, solcandomi la pelle senza esitazioni.

«Abbiamo perso o meglio hai perso questo diritto, quando hai commesso azioni a cui nessuno può porre rimedio.» 

Una morsa mi stritolò la bocca dello stomaco al sentire le sue parole pronunciate con tanta crudeltà. «Che cosa intendi fare?» fu l'unica domanda che mi venne in mente in questo momento: sapere quali fossero le sue intenzioni.

Mi avrebbe denunciata? Mi avrebbe voltato le spalle? Perché in questo momento non mi era chiaro nulla, così come lo era stato sulla barca nel momento esatto in cui mi aveva puntato la pistola contro: non sapevo se mi avrebbe sparato allora e non lo sapevo nemmeno adesso. Era tutto nelle sue mani ancora una volta e mi sentii impotente.

Riportò gli occhi su di me, valutando il da farsi: e tra ragione o sentimento alla fine non trionfò nessuno dei due. «Ogni parte del mio corpo mi dice di andarmene», disse solo.

«E allora fallo.»

Annuì impercettibilmente, per poi andarsene. Impiegai qualche secondo per realizzare quello che davvero stava avvenendo. Provai a trattenerlo, richiamando, ma non mi ascoltò.

Guardandolo voltarmi le spalle ancora una volta, mi lacerai definitivamente ma non potevo incolpare nessuno se non me stessa per come si era evoluto il nostro rapporto. Io l'avevo rovinato e io lo avevo distrutto.

L'occhio mi cadde sulla fotografia e mi ci avvicinai per afferrarla. L'odio si risvegliò dentro di me per qualcuno che non avrebbe mai smesso di farmi del male anche da morto e lo realizzai solo ora.

Mi spostai in soggiorno per cercare l'accendino e una volta preso, lo avvicinai all'immagine che ci ritraeva insieme. La guardai bruciare in religioso silenzio.

A volte commettevamo dei peccati per i quali non c'era perdono, non importava se ce ne pentivamo amaramente... era inutile farlo perché era come se il demonio stesse aspettando che il nostro corpo cedesse, perché lui sapeva, lui sapeva bene che la nostra anima apparteneva a lui. E quando sarebbe venuta anche per noi la nostra ora, Dio dirà. "No, no, tu non puoi entrare, devi andartene subito, devi andare via lontano e devi startene da solo. Tu devi restare solo per sempre."

Ecco cosa mi si prospettava e non avrei dovuto far altro che accettarlo.

Mi chiusi la porta alle spalle e m'incamminai lungo il vialetto per andare a prendere l'auto. Caricai le ultime cose e vi salii, per poi partire verso il mio futuro.

Ero ritornata quella di sempre o almeno ci stavo provando. Non avrei versato più una lacrima perché ero più che convinta che questa fosse l'ora zero: l'ora in cui tutto era possibile, anche ricominciare ed era proprio quello che avrei fatto. In un'altra città, una nuova vita e una nuova Vivienne. Non avrei più negato il mio passato perché era quello che mi aveva fatta diventare quella che ero ora, e potevo esserne orgogliosa perché in fondo ero sopravvissuta per ben due volte proprio grazie a lei: Lara Crawford e non l'avrei più rinnegata. Non più.

Mi fermai davanti al cimitero della città per dire addio all'uomo che era stato sacrificato per un'ingiusta causa e che era stato screditato da chiunque in questa orrenda città per un gesto che non aveva commesso.

Eri e continui a essere speciale, Patrick, sei l'unico che non mi abbia mai deluso e sei uno dei pochi che non scorderò mai. Spesso mi manca il tuo sorriso e la tua gentilezza, vorrei aver potuto evitare tutto questo ma non ne ero stata in grado. Spero che tu possa perdonarmi anche da lassù per non averti potuto dare quanto avevi bisogno. Spero con tutto il cuore che tu non abbia rimpianti perché io non ne avrò. Addio, amico mio.

Ingranai la marcia e a tutta velocità mi lasciai il mio passato alle spalle. Abbassai il finestrino e accesi la radio a tutto volume. «Da adesso siamo solo io e te, piccolino, ti consiglio d'iniziare a pregare.» 

Sorrisi tra me e, dopo aver passato una mano sulla mia pancia con affettuosità, portai entrambe le mani sul volante e lasciai la città che mi aveva portato più guai che soddisfazioni. Non avrei avuto davvero alcun rimpianto, se non fosse stato per l'uomo che inconsciamente ero arrivata ad amare. Un uomo che di certo non avrei dimenticato e che per quanto mi avesse fatto male, avrei desiderato rincontrare un giorno perché senza volere era riuscito a farmi apprezzare la vera me. Una persona con un po' di sicurezza e di coraggio in più: ero più forte e lo dovevo a Jonathan Walker. Ero in debito nei suoi confronti e forse un giorno avrei avuto modo di saldarlo.

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