Capitolo 4- Toccare Il Fondo

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Mi avvicinai senza sapere che cosa aspettarmi. Era tutto preso dal fumarsi una sigaretta appoggiato al suo furgone e quando si accorse della sottoscritta, mi sorrise. A quella vista, però, sentii insorgere la rabbia. «Se non sa tenere gli impegni al primo giorno di lavoro, non immagino cosa farà in seguito.»

L'espressione di James mutò. «Ho avuto un contrattempo, avrei dovuto avvertirla, le chiedo scusa.»

Sospirai. Aprii la borsa per cercare le chiavi trovando così il modo per tirarmi via da questo impiccio, ma lui sembrava intenzionato a fare tutt'altro. Infatti, se ne rimase fermo, davanti a casa mia. «Mi spiega che ci fa qui?» domandai. «Per le scuse poteva rimandare a domani.»

«Sono qui per fare quello per cui mi paga» mi prese in contropiede. 

«Vuole lavorare adesso?»

Alzò le spalle come se non ci fosse nessun problema. «Voglio dimostrarle che non sono uno scansafatiche.» 

«Come preferisce.» Mi avviai verso casa sentendo i suoi passi seguirmi. «Ma non si aspetti straordinari per il lavoro serale.»

Rise. «Mi sembra che ci eravamo già messi d'accordo di non usare le formalità, Vivienne.»

Tenendo le chiavi nella serratura, mi voltai verso di lui con un sopracciglio alzato. Mi trovai ad ammettere che aveva uno strano modo di fare. Da un lato m'irritava, ma dall'altro mi incuriosiva. «Sì, lo avevamo fatto» sussurrai, rinunciando a capirlo. Poi aprii la porta e James mi seguii all'interno. «Ormai credo che sappia orientarti, se hai bisogno di qualcosa mi trovi in cucina. Ho del lavoro da sbrigare.»

M'incamminai verso quella direzione, ma dovetti fermare la mia avanzata quando mi chiese: «Cosa fa?»

Mi girai verso di lui perplessa. «Come?»

«Che lavoro fa?»

Non mi sentii a mio agio ma, per quale strano motivo, lo assecondai. «L'insegnante.»

«All'istituto del quartiere?»

«Perché lo chiedi?»

Notò subito la mia reticenza e un sorriso ironico comparve sulla sua bocca. «Perché ci vanno le mie nipoti.»

Mi tranquillizzai andandomene in cucina. Sentii i suoi passi scendere le scale e recarsi nello scantinato. Mi sedetti e, dopo essermi circondata da libri e fogli, iniziai a svolgere il mio lavoro fino a quando non sentii il mio telefono suonare per l'arrivo di un messaggio. Mi alzai per cercarlo nella borsa e una volta trovato, accesi il display trovando un messaggio vocale da Patrick e, dopo un attimo di esitazione, lo azionai.

«Non m'interessa quante volte ancora mi dirai di no, non mi arrenderò con te. Riuscirò a dimostrarti che un senso c'è. Eccome se c'è. Noi due abbiamo un senso, Vivienne.»

Appoggiai il telefono sul tavolo e mi presi la testa tra le mani. Sospirai e sentii qualcosa smuoversi dentro di me, alla fine quest'uomo mi era entrato dentro più di quanto potessi immaginare. 

Perché non mi voleva lasciare in pace? Forse avremmo potuto avere un senso in un'altra vita ma non in questa e non a queste condizioni. Non ero pronta per quello che voleva lui e di questo ne ero certa.

Il telefono squillò e m'irrigidii temendo che fosse lui ma una volta che lo afferrai, lessi il nome di mio fratello. Imprecai, poi accettai la chiamata lasciando che fosse lui il primo a parlare. «Sei a casa?»

Chiusi gli occhi. «Sì, sono a casa. Hai altre domande da farmi?» non riuscii a trattenermi dall'usare un tono amaro perché, di certo, non avevo pensato di risentirlo così presto, non con quello che ci eravamo detti poco prima.

«Volevo solo sapere se fossi rientrata, tutto qui.» Mi appoggiai allo schienale della sedia delusa e rimasi in silenzio sentendo che lui faceva lo stesso dall'altra parte della linea, poi disse qualcosa di inaspettato. «Vivienne, tra qualche giorno lascio la città. Volevo dirtelo prima, ma non c'è stato modo.»

Mi avvilii intuendo che era arrivato il momento. Lo avrei perso e questa volta sarei rimasta davvero sola perché Arthur era l'unica persona che avevo gelosamente custodito al mio fianco.

Sospirò sentendo che non reagivo, probabilmente scocciato anche a lui dalla separazione. Forse, però, era arrivato il momento che prendesse la sua strada e, di sicuro, la vita che lo aspettava non si preannunciava per niente male con una donna che amava e un figlio in arrivo. Per un attimo mi sentii persa. Avrei voluto chiedergli di restare, ma non lo feci. Avevo paura di restare senza nessuno: era triste ammetterlo con me stessa ma era la verità. Avrei voluto che restasse con me: io e lui contro il mondo, come eravamo soliti dire da piccoli, ma non era giusto e lo sapevo, così dissi l'unica cosa che mi avrebbe permesso di non crollare al telefono. «Fai buon viaggio, Arthur.»

«Vivienne» mi richiamò.

Mantenni un tono distaccato quando parlai: «No, va bene così. Dico davvero.» Lo sentii sbuffare d'altro lato della linea. «Ora devo andare.»

«Vivienne» tentò di nuovo, avendo intuito che volevo chiudere in fretta per non lasciar trasparire troppo le emozioni contrastanti che la notizia della sua partenza mi aveva provocato.

«A presto.» Chiusi la chiamata. Silenziai il telefono perché sapevo che, poco dopo, avrebbe ripreso a suonare e infatti fu proprio così, ma lo ignorai e mi alzai. Mi diressi a prendere un calice, poi mi avviai verso il frigorifero e tirai fuori una bottiglia di vino nuova di zecca. La stappai e mi riempii il bicchiere finendo per brindare a me stessa. «A quelli che rimangono.»

Se c'era una cosa che non sarei mai stata in grado di fare, era quella di scappare o abbandonare tutto per ricominciare altrove. Non ero il tipo e probabilmente ero autolesionista perché preferivo stare nello stesso posto che non mi permetteva di dimenticare, ma che almeno mi permetteva di rimanere con i piedi per terra e di pormi degli obbiettivi. Ciò che non uccideva, fortificava. O almeno era di questo che mi ero convinta.

Stavo sorseggiando il mio secondo bicchiere quando sentii James salire le scale e raggiungermi in cucina. Non gli prestai subito attenzione, stavo finendo di leggere un paragrafo, ma quando alzai lo sguardo lo trovai intento a fissarmi. Alzai un sopracciglio, ma lui non abboccò, anzi si soffermò sulla bottiglia che era sul tavolo. «È un'occasione particolare?» mi chiese.

Notai che fosse sporco di vernice e affaticato. «No, nessuna occasione.» Riportai gli occhi sul libro davanti a me. Poi rialzai gli occhi su di lui rendendomi conto che non si fosse mosso. «Volevi qualcosa?»

«In realtà, sì.»

Voleva sapere particolari per il lavoro: se volevo rifare il pavimento e se sì, come lo avrei preferito. Parlammo per qualche minuto, poi gli chiesi di sedersi, gli offrii un bicchiere che rifiutò. Io invece me ne versai un altro. Volevo un po' di compagnia e per averla dovevo adattarmi perché, per adesso, l'estraneo che mi sedeva di fianco sembrava essere l'unico interessato alla sottoscritta.

«Vivi sola, Vivienne?» domandò tutto a un tratto.

Annuii senza distogliere lo sguardo dal bicchiere, lo feci dondolare tra le mie mani. Gli posi la stessa domanda e rispose allo stesso modo: non c'era nessuno nella sua vita e forse era più simile a me di quanto potessi immaginare. Glielo lessi in volto, aveva la mia stessa malinconica espressione e due occhi spenti.

Se gli occhi erano lo specchio dell'anima, allora la sua non doveva essere tanto migliore delle mia.

«Non tutti hanno bisogno di qualcuno, alcuni sanno cavarsela da soli e riuscire a uscirne più forti di prima.» Alzai gli occhi su di lui, era perso nei suoi pensieri e l'osservai con attenzione cercando di riflettere sulle sue parole e quando m'immedesimai in esse, mi alzai sentendomi a disagio. Mi avvicinai al lavello e vi appoggiai il bicchiere, barcollai leggermente per essermi alzata troppo in fretta e il mondo ondeggiò ai miei occhi. Mi voltai appoggiandomi alla cucina per trovarlo in piedi ad osservarmi. Feci lo stesso. «Forse è meglio che vada», disse.

Non saprei dire che cosa lesse nel mio sguardo ma qualcosa lo fece desistere dal mettere in atto quanto preannunciato. Ci fissammo in silenzio e per quanto ci provassi non riuscii a distogliere lo sguardo dal suo: capii che non ero per niente lucida e che difficilmente sarei riuscita a tenere a freno le mie azioni. O inibizioni.

Mosse qualche passo nella mia direzione finché non me lo ritrovai davanti. Lo guardai senza fare nulla, temetti anche di aver smesso di respirare, ma non distolsi mai lo sguardo e lui fece altrettanto. Non mi fu chiaro che cosa stesse succedendo o meglio sapevo come sarebbe andata a finire ma lo stesso non feci niente, rimasi inerme a studiare la sua prossima mossa. Mi scostò un ciuffo di capelli dal viso con delicatezza e io non provai nulla. Come potevo? Ma sapevo che sarei riuscita a provare qualcosa solo in una data maniera, o meglio sarei riuscita a provare le stesse identiche emozioni che ero tanto desiderosa di provare e che non avevo ancora smesso di cercare.

«Possiamo consolarci a vicenda, Vivienne» sussurrò. 

La sua sicurezza mi confuse. Era come se riuscisse a leggermi dentro. Come se fossi fatta di vetro. Aprii la bocca per dire qualcosa, forse per fermarlo o semplicemente per cercare di impedire a me stessa di fare un'altra stupidaggine ma alla fine ci ripensai e, riportando gli occhi nei suoi, lo sfidai a portare a termine quanto si era posto. Afferrò il mio volto tra le mani e si fiondò sulle mie labbra.

Ci spostammo nella mia stanza dando vita a un vero e proprio pandemonio: fu freddo e crudo, apatico di emozioni e affettuosità ed era proprio così che lo volevo. Privo di coinvolgimento emotivo e quando alla fine riuscii ad ottenere quello che volevo, mi addormentai dandogli le spalle e nel silenzio che seguì non potei fare a meno di pensare che avevo iniziato davvero a toccare il fondo, ed era più che probabile che da lì non sarei più riuscita a risalire.

***

Mi svegliai sentendo il calore dei raggi del sole colpire il mio viso e mi stiracchiai ricordandomi solo dopo che non fossi sola nel letto. Mi accorsi che James fosse già sveglio e mi voltai seccata, al contrario suo che invece mi parve di ottimo umore. Mi augurò il buongiorno senza che naturalmente ricambiassi. Mi sollevai appoggiandomi alla testiera del letto e, allungandomi verso il mio comodino, afferrai una sigaretta per poi accenderla. «Non credo di averlo mai fatto prima.» Si girò verso di me. «Andare a letto con un perfetto estraneo, non so praticamente nulla di te.» Si sollevò interessato. «Potresti essere anche un maniaco per quanto ne so.»

Rise. «Per quanto ne so potresti esserlo tu» mi sorprese la sua risposta pronta. «C'è qualcuno nella tua vita, Vivienne? Te lo chiedo perché non vorrei rischiare di essere pestato a sangue.»

«Forse avresti dovuto pensarci prima, non credi?» lo guardai. Lui mi gettò un'occhiata. Rimasi in silenzio per i minuti successivi e lui m'imitò, poi si sedette sul bordo del letto con tutte le intenzioni di alzarsi e non riuscii al trattenermi dal dire quello che sentivo di dover mettere in chiaro. «Possiamo fare come se non fosse mai successo?»

Si prese un attimo per osservarmi. «Perché cos'è successo?» Mi scappò una risata soddisfatta dalla sua reazione. Mi sorrise, poi si alzò e si vestì in silenzio mentre rimasi tra le lenzuola finendo di fumare. «Sai qual è la cosa positiva?» iniziò. «Che oggi non farò tardi al lavoro. Sai, la donna per cui lavoro non scherza.» 

Sorrisi. Lo guardai uscire dalla mia stanza e ascoltai i suoi passi attraversare il corridoio. Non mi mossi fino a quando non lo sentii scendere le scale che lo avrebbero condotto nel seminterrato. Aspettai qualche minuto, poi mi distesi nel letto e fissai il soffitto per diverso tempo prima di trovare il coraggio di alzarmi.

Quando lo feci, rendendomi conto che fossi già in ritardo nella tabella di marcia giornaliera, mi diressi in bagno e mi feci una doccia per cancellare via ogni traccia della mia follia. Lasciai che l'acqua calda mi scorresse addosso in un grido silenzioso e, chiudendo gli occhi, immersi il volto sotto il getto per annullare il mondo al di fuori.

Finita la doccia, mi asciugai i capelli e mi vestii. Feci colazione e mi preparai un caffè al volo. Raccolsi la borsa con il materiale per la giornata e mi avviai verso l'uscita ma prima di andarmene mi fermai. Alzai gli occhi al cielo incamminandomi verso le scale e lo chiamai diverse volte prima che comparisse alle fondamenta. «Sto andando al lavoro. Chiudi tu quando vai via, per favore?»

«Posso aspettarti se preferisci» propose.

«È meglio così, dico davvero.»

Sembrò deluso, ma fu solo un momento passeggero perché poi la sua espressione tornò quella di sempre: distaccata e serena. «Ok.» Annuii convinta finalmente che avesse compreso ma appena mi voltai, mi chiamò deciso. «Vivienne.» Mi voltai senza mostrare alcuna reazione particolare, era salito di qualche gradino per avvicinarmisi. «Non voglio crearti problemi, puoi stare tranquilla.»

Per quanto le sue parole mi tranquillizzarono, non mi fidavo e se non di lui di me stessa: non dopo gli errori che commettevo con così tanta facilità. «Vorrei dare la colpa al vino, ma mentirei a me stessa, perciò voglio essere chiara fin da adesso che non si ripeterà. Se pensi che possa essere un problema per te e per il lavoro che devi fare, allora finiamo qui l'accordo e ti pago la parte che ti spetta.»

Mi fissò per un lungo attimo. «Come ti ho già detto, nessun problema. So essere professionale quando voglio.» Ammiccò e sorrisi sarcasticamente, chiedendomi in che cosa mi fossi cacciata. Gli augurai buona giornata e uscii dalla mia abitazione pronta a recarmi al lavoro, credendo di essere riuscita rimediare un po' alla situazione.

Arrivai a scuola con qualche minuto di ritardo e a passo svelto mi recai verso la mia aula pronta a iniziare. E quando ebbi terminato la mia prima lezione, mi recai in sala professori per depositare i compiti già svolti. Qualche professore, vedendomi, mi salutò cortesemente per poi correre ai suoi impegni.

Entrai a testa alta e mentre camminavo attorno al tavolo, che riempiva la stanza, percepii uno sguardo su di me e non uno qualunque. Lo guardai non riuscendo a trattenermi e la tempesta che lessi nei suoi occhi non mi rassicurò per niente. Distolsi subito lo sguardo perché fu di troppo e in un certo senso mi sentii colpevole per quello che avevo fatto, anche se in realtà non gli dovevo niente, così come lui non ne doveva a me.

Era tutto assurdo, io per prima: chissà cosa mi era passato per la testa quando avevo acconsentito a dar vita a questa tresca che ormai aveva assunto le vesti di tutt'altra cosa a me sconosciuta.

Depositai i fogli e in fretta e furia me ne ritornai sui miei passi, non prima però di averlo visto alzarsi. Mi allarmai. Non aveva mica intenzione di seguirmi o tendermi una trappola proprio qui nell'istituto?

Velocemente m'infilai in un'aula vuota, giusto il tempo per sentirlo passare al mio inseguimento senza che, per fortuna, si fosse accorto di me. Sospirai perché non avevo la più pallida idea di come uscire da tutto questo casino. Mi mossi per uscire dopo diversi minuti ma non appena aprii la porta, me lo ritrovai davanti. Trattenni il fiato per la sorpresa e Patrick mi ritrascinò all'interno chiudendosi dietro la porta. Alzai lo sguardo su di lui indecisa se infuriarmi o fuggire. «Siamo un po' grandi per giocare a nascondino, non credi?»

«Non mi lasci altra scelta.»

«Nemmeno tu. Non rispondi al telefono, mi tagli completamente fuori. Come credi che possa sentirmi?»

«Mi stai mettendo in una brutta situazione, il preside già mi ha messa in guardia...»

«È questo che ti ha detto l'altro giorno?» chiese. «Lo devo sapere, perché in questa cosa ci siamo dentro insieme.»

«Puoi stare tranquillo, nessuno saprà niente. Non sono il tipo da urlarlo ai quattro venti, anche perché sarei l'unica ad essere crocifissa.»

«Non era questo che intendevo e lo sai.» Sembrò prendersela per le conclusioni a cui fossi giunta. «Non ti lascerei mai ad affrontarlo da sola e mi sembra già di avertelo detto in ogni modo, ma tu non ti fidi di nessuno, giusto? Non so cosa devo fare ancora per fartelo capire.»

«Non devi fare niente perché non c'è niente che tu debba fare, infatti non dovremmo neanche parlarne.» Indietreggiò, prendendo le distanze. Lo guardai cercando di capire che cosa gli stesse passando per la testa ma, vedendo che non aggiungeva nient'altro, presi la parola. «Non possiamo far tornare le cose com'erano prima? Sei un uomo fantastico e un amico come pochi: siamo sempre andati d'accordo anche prima di tutto questo, senza problemi. Ammetto che c'è una certa chimica ma...»

«No, non possiamo», disse, amaramente. «Non a questo punto. Non per me, almeno.» Si ritirò adirato sbattendosi dietro la porta e lasciandomi da sola. Sospirai e, dopo essermi ricomposta, mi recai a svolgere la prossima lezione con la mente in subbuglio o meglio occupata da pensieri che credevo non dovessero appartenermi.

Dovevo riacquistare il controllo, la Vivienne che avevo costruito non si sarebbe mai persa in chiacchiere e in frivoli discorsi come invece stavo facendo in questo momento. Ce la potevo fare, bastava che chiudessi dentro di me qualsiasi remora o indecisione sul suo conto senza lasciarmi emotivamente coinvolgere. Non era difficile, in fondo era una delle mie specialità.

All'uscita dalla scuola mi avviai verso la mia auto e una volta salita, cercai di metterla in moto ma non ne voleva sapere di partire. Rigirai la chiave diverse volte, controllai il motore, ma non ne ricavai nulla. Imprecai, la chiusi a chiave e mi avviai verso la fermata dell'autobus a poca distanza dall'istituto. Mentre ero ferma ad aspettare, chiamai il mio meccanico di fiducia che mi promise che sarebbe andato a dare un'occhiata visto che aveva già la copia della mia chiave; gliela avevo lasciata per l'emergenza e benedii il cielo per averlo fatto.

Stavo aspettando ormai da diverso tempo quando notai una macchina venire nella mia direzione e fermarsi davanti alla sottoscritta. Quando capii di chi si trattasse, sbuffai, ma lui non si lasciò intimorire e, tirando giù il finestrino, m'invitò a salire. «Non ci salgo Patrick. È troppo rischioso, ok?»

Sorrise e iniziai a odiarlo. «Non c'è nessuno, Vivienne.» Mi guardai attorno per appurare la sua teoria e notai che avesse ragione. «È solo un passaggio.» Risi perché se c'era una cosa che avevo imparato negli anni era che quando qualcuno sminuiva qualcosa, in realtà voleva significare tutt'altro. «Non mi costringere a scendere e caricarti di peso.»

Lo trucidai con lo sguardo. «Non oseresti.»

«Oh, oserei eccome.» Il sorriso minaccioso che gli comparve sulle labbra mi fece sorridere. «Avanti, altrimenti...»

«Ok. Falla finita.»

Sorrise per il tono esasperato che usai e una volta aperta la portiera, mi sedetti e lui partì verso casa mia. «Ti va di andare a cena da qualche parte?»

Mi voltai con sguardo mezzo scioccato. «No, e il perché mi sembra anche ovvio.» Mantenne lo sguardo dritto davanti a lui impedendomi di capire come l'avesse presa. «Mi spieghi che scuse rifili a tua moglie? Me lo sono sempre chiesto.»

«Questo vuol dire che mi pensi più del previsto.» Sorrise, gongolando. Mi voltai a guardare fuori dal finestrino sentendomi colta in fallo. «E per rispondere alla tua domanda: non ho bisogno di inventarmi nessuna scusa. Non ti è mai passato per la testa che forse è a lei che non interessa quello che faccio?»

Sinceramente non seppi che cosa dire. Mi gettò una veloce occhiata. Vi lessi amarezza e altro. Accese la radio, cambiò stazione un paio di volte, prima di fermarsi su una delle mie canzoni preferite. Sorrise dolcemente a qualche ricordo. Probabilmente che riguardava entrambi. Il suo ricordarsi della confidenza mi addolcì. Sospirai e mi arresi alla mala sorte. «Non cambio idea sulla cena, ma ti va di andare in un posto?»

Si voltò un attimo verso di me sorpreso. «E me lo chiedi? Ti seguirei ovunque, Vivienne.»

Incastrammo i nostri sguardi, poi riportò il suo sulla strada. Mi pentii quasi subito di averglielo chiesto. Perché dovevo dargli false speranze se poi tanto sapevo già come sarebbe finita? Anzi avrebbe dovuto esserlo già da tempo, ma per quanto mi opponessi alla fine finivo sempre per assecondare questa pazzia che aveva finito per coinvolgerci entrambi.

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