08. Menzogne

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Fiore d'inverno – Dutch Nazari

Quando Cleo andava a nuotare, il momento peggiore non era il primo impatto con l'acqua gelida della piscina, bensì quello in cui doveva abbandonare il suo abbraccio: la lunga passerella fino all'accappatoio, i brividi di freddo che le pizzicavano la pelle e persino gli sguardi che le bruciavano addosso le facevano sempre rimpiangere di non poter restare in vasca fino a quando tutti non se ne fossero andati ed essere libera di galleggiare sulla pellicola dell'acqua nel silenzio più totale, in attesa dell'attimo perfetto per andare a farsi una doccia. Così non era, però.

Riflettendoci ancora una volta, si diresse verso gli spogliatoi accompagnata dal rumore bagnato delle ciabatte che battevano sul pavimento piastrellato. Non amava molto neanche quelli, ad essere sincera; era troppo pudica per spogliarsi davanti alle altre donne che lo affollavano, così come odiava le lunghe attese al freddo che una cabina si liberasse. Sua madre, quando da bambina le aveva rivelato i segni di un simile fastidio, aveva liquidato la questione dicendole di essere più elastica, ma Cleo non ne era mai stata capace. Anche spogliarsi davanti a Giulio era stato difficile. La prima volta non era riuscita a trattenersi dall'avvolgere le braccia attorno al corpo, in un tentativo di protezione che l'altro aveva accolto con un sorriso dolce, per poi dirle che non c'era nulla di sbagliato in lei; col passare del tempo aveva acquistato una certa scioltezza, nonostante qualcosa le grattasse ancora sulle pareti del cervello invitandola a rivestirsi. Non che il resto andasse male – non era mai andato male –, ma Cleo non era riuscita a scrollarsi di dosso la vergogna acuta che provava per i suoi spigoli, incarnati in scapole sporgenti, seni piccoli e dura ossa del bacino.

Se per un certo periodo aveva creduto che Giulio la amasse davvero, dopo tutto ciò che era successo le era salito in gola un senso di disgusto profondo, tanto che, chiusa in una cabina, si chiese se fosse possibile aprire lunghi tagli sulla pelle e riempirsi di ovatta, creando un corpo morbido in cui chiunque sarebbe affondato volentieri. Sarebbe diventata più malleabile, se solo il fisico fosse stato in grado di esserlo.

"C'è chi ucciderebbe per essere come te" pensò con una smorfia, mentre allacciava i jeans.

Finì di vestirsi in fretta, le orecchie che coglievano spezzoni di conversazioni sussurrate tra gli armadietti o i rapidi ciabattii dei ritardatari del turno successivo, e rifletté su cosa avrebbe potuto mangiare per cena. Non che avesse fame, visto che i ricordi del giorno precedente ancora le chiudevano lo stomaco.

Nonostante le avesse detto il contrario, Cleo aveva percepito fin troppo bene quanto Corrado fosse rimasto deluso dal comportamento della madre e, in parte, anche dal suo, che non aveva trovato la forza per seguirlo. Non sarebbe mai dovuta tornare a casa, o chiedergli di accompagnarla.

Il pensiero che il disastroso pranzo fosse avvenuto solo a causa sua aveva reso il cibo insipido, e la sera precedente aveva cenato a fatica con uno yogurt che poi aveva quasi vomitato, tali erano i sensi di colpa. L'idea di ingerire nuovo cibo le era insopportabile.

"Non mangerò, allora" si disse, avviandosi verso l'uscita. Poco le importava se nel corso delle ventiquattrore precedente la cosa più solida che avesse approcciato fossero stati tre cracker verso mezzogiorno.

Scacciando i sensi di colpa opposti che la invitavano a non trascurarsi, si infilò le cuffiette nelle orecchie e uscì all'esterno. Cleo accolse il freddo pungente di inizio dicembre con le mani infilate nelle tasche e la musica a palla, senza rendersi conto di quante cose fossero cambiate da metà ottobre; percorse i gradini due a due, rabbrividendo, e fece per dirigersi verso la fermata del tram più vicina, ma una figura scorta con la coda dell'occhio la costrinse a fermarsi.

Titubante, non del tutto certa che fosse una buona idea, si avvicinò a passi lenti verso l'uomo appoggiato al cofano di un'automobile, una sigaretta tra le labbra e il viso puntato sul cellulare che teneva tra le mani. Francesco si accorse di lei prima che potesse esalare il "Ciao" fermo sulla lingua.

"Ma cosa vedo?" le disse, allungando una mano per prenderle una cuffietta. Se la portò all'orecchio e chiuse gli occhi per qualche secondo, intento ad ascoltare, per poi porgergliela di nuovo. "Non so cosa sia, ma non è male."

"Consigli di mio fratello" rispose lei, spegnendo la musica. Non apprezzava le canzoni indicatele da Dado quanto quelle di Francesco, ma si era detta di fare almeno un tentativo. "Cosa ci fai qui?" gli chiese subito dopo.

"Ho pensato di raggiungerti dopo il lavoro. Non mi sembravi molto allegra" le rispose, riferendosi ai messaggi che si erano scambiati nel corso della giornata. Cleo, infatti, dopo una lunga conversazione in cui gli aveva spiegato cos'era accaduto domenica, l'aveva salutato dicendogli che stava andando a nuotare, ma non avrebbe mai immaginato che l'altro avrebbe usato l'informazione per venire a trovarla. Per fare cosa, poi? Consolarla?

La risposta le arrivò senza che avesse il tempo di formulare in effetti la domanda. "Ti va di cenare assieme?"

"In realtà non è che abbia molta fame..." rispose, scuotendo appena il capo. "Vorrei tornare a casa, infilarmi sotto le coperte e dormire per il resto della settimana, a essere onesta."

"Secondo me tu avresti bisogno di parlare" replicò Francesco, prima di fare un ultimo tiro della sigaretta e buttarla a terra. "Vieni da me."

"No."

Se l'altro fosse rimasto colpito dal tono gelido con cui lei aveva pronunciato le due lettere, non lo diede a vedere. Preferì aprire la portiera dell'automobile e farle segno di entrare, accompagnando il gesto con poche parole. "Ti offrirei una cena fuori, ma ieri avevo già preparato delle polpette da friggere e sarebbe un peccato sprecarle" le disse, riservandole un sorriso sghembo. "Guarda che sono bravo a cucinare, eh."

"Ma se ti ho appena detto che non ho fame" borbottò lei, nonostante la proposta le avesse creato un minuscolo spazio nello stomaco. Piccolo, ma comunque esistente e di certo migliore del vuoto siderale di qualche minuto prima.

"Devo tornare a parlare per frasi fatte?"

Cleo inarcò un sopracciglio. "Cosa vuoi dirmi?" gli chiese, incrociando le braccia al petto. "Che davanti a un buon piatto siamo tutti più felici?"

Francesco scoppiò a ridere. "Più o meno... e non dire che non è vero!" la rimbeccò. "Anche se temo che per me la felicità si trovi da tutt'altra parte."

Le lanciò un'occhiata penetrante e le si avvicinò di un paio di passi, tanto che le schizzò il cuore in gola ed ebbe la netta impressione che, se solo non avesse avuto un qualche freno a lei sconosciuto a tenergli a bada la lingua, avrebbe concluso con qualcosa che sarebbe suonato molto come un "Tra le tue gambe, per esempio."

Cleo lo guardò negli occhi per una manciata di secondi, la tensione attorno a lei che si faceva più palpabile; era diversa, però, da quella del giorno precedente, come un invito ad avvicinarsi ancora per non tornare mai più indietro. Ironicamente, fu il pensiero di Giulio a scacciare tutte le altre idee che le stavano altrimenti frullando in testa.

"Non dovresti provarci con me" mugugnò, per poi sgusciare via ed entrare nell'automobile. "Non è sano."

"Chi l'ha detto che ci sto provando?" Francesco, dopo essersi accomodato al posto del guidatore, le diede un buffetto. "Potresti essere una mia sorella più piccola a cui voglio tanto bene."

"Ti devo ricordare a cosa hanno portato gli incesti negli antichi egizi?"

"Touché" replicò lui, prima di uscire dal parcheggio. "Ma speravo in una citazione da Game of Thrones."

Cleo lo  guardò stranita, non riuscendo a cogliere cosa c'entrasse la serie televisiva, e l'altro roteò gli occhi. "Non sai cosa sia?" le chiese, scuotendo appena la testa.

"Non guardo molta televisione" disse, anche se la risposta onesta sarebbe stata che trovava inutile spendere ore e ore attaccati a uno schermo. Come per i romanzi, non aveva voglia di intavolare una lunga discussione dove avrebbe finito per apparire ridicola.

"In realtà io parlavo dei libri, ma tant'è..." commentò Francesco, fermandosi all'incrocio tra viale Tunisia e corso Buenos Aires. "Sappi che nella classifica di cose che dovresti fare per il tuo bene, leggere sta al secondo posto."

"E al primo?"

"Non sei tu ad aver detto che non ti piacciono gli incesti?"

Cleo ringraziò le luci del semaforo rosso, sicura di essere diventata scarlatta fino alla punta delle orecchie.

Cleo non conosceva bene Milano. Nonostante ci abitasse da ormai quasi cinque anni, certe zone per lei rappresentavano una grande incognita, sia perché non aveva mai avuto modo di frequentarle, sia perché non aveva alcuna intenzione di metterci piede a causa della brutta fama posseduta. Inutile a dirsi che era sbiancata quando Francesco le aveva annunciato di abitare a Calvairate.

Non che avesse particolari pregiudizi, ma tutti le avevano sempre detto di evitare quel quartiere, così come Barona, Quarto Oggiaro, o ancora viale Padova e viale Monza. La reazione era stata quindi naturale, così come era stato altrettanto naturale il commento che le aveva riservato l'uomo quando aveva notato la sua faccia.

"Non ti sto portando in un mattatoio."

"Lo so, lo so" aveva replicato, mentre vedeva scorrere fuori dal finestrino una serie infinta di condomini gli uni uguali agli altri, la sensazione di non sapere dove fosse che la accompagnava. "È che... in realtà non so nemmeno io cosa mi aspettassi."

La conversazione aveva finito per languire, ma Cleo aveva apprezzato il silenzio calato tra loro e aveva continuato a osservare il mondo esterno, persa tra le luci dei lampioni, la leggera nebbia e gli autobus pieni di persone in cui sbirciava. Per un attimo si era sentita cristallizzata nel tempo, lontana da ogni problema, proiettata in una realtà parallela dove avrebbe potuto trascorrere il resto della sua vita nell'automobile senza alcuna conseguenza. Aveva finito, però, per pensare a Giulio e a come lo evitasse; non gli aveva detto di come fosse andato il pranzo di domenica, nicchiando con un modesto "Come al solito" che non doveva averlo convinto del tutto, così come non aveva accettato del tutto l'invito a uscire per Sant'Ambrogio da qualche parte. Più i giorni passavano, più i sensi di colpa nei confronti di entrambi i ragazzi si mescolavano a una stanchezza primordiale, che la portava a pensare che avrebbe dovuto sul serio seguire il consiglio di Dado e starsene da sola. Ma se poi lo fosse rimasta per sempre?

Era talmente presa da simili riflessioni che non si era neppure accorta che Francesco avesse parcheggiato. Fu solo quando lui le schioccò le dita davanti agli occhi che si riscosse, rendendosi conto di essersi incantata.

"Pensieri esistenziali?" le chiese lui, appena mise piede fuori dall'automobile. "O in stato catalessico per la fame?"

"Primi." Cleo rabbrividì, sentendo i morsi del freddo colpirla ovunque dopo il tepore in cui era stata immersa nell'abitacolo. "Possiamo andare al caldo?"

Francesco non le rispose, aprendole invece la strada. Camminarono per un paio di minuti, sempre in silenzio, fino a quando non raggiunsero il cortile di un condominio come tanti altri lì vicino, dentro cui si addentrarono fino a una scala; quando entrarono in ascensore Cleo tremava così tanto che l'altro le frizionò le braccia, guardandola stranito.

"Ma stai male?" le chiese, mentre la cabina saliva fino al settimo piano.

"Forse è perché non mangio da ieri a pranzo" replicò lei, sentendosi all'improvviso molto debole. Non era stata una grande idea andare a nuotare, ma come avrebbe fatto a sopravvivere fino al giorno successivo senza farlo?

Francesco imprecò a denti stretti e, appena si fermarono, la prese sottobraccio e la trascinò fino all'appartamento, per poi invitarla a togliersi scarpe e cappotto appena misero piede nel piccolo ingresso. Cleo eseguì, lasciando il secondo appoggiato su una sedia, e si mise a studiare l'ambiente: parquet pulito, una mensola su cui erano buttate le chiavi e qualche foto alle pareti color crema. Nulla di insolito, né di eclatante.

"Vieni di qua" le disse Francesco, imboccando la porta che si trovava alla loro destra.

Lei lo seguì senza storie, entrando un disimpegno che dava su tre stanze differenti.

"Camera mia" disse l'uomo, indicando a sinistra. "Bagno" aggiunse, puntando dritto davanti a sé. "Cucina. Ora ti do qualcosa da sgranocchiare."

Cleo non ebbè la forza di ribattere che stava bene, tanto da non rifiutare neppure il pacchetto di crackers che le mise in mano dopo che si era accomodata su una sedia; prese a mangiucchiarli con scarso interesse, lo stomaco che si rifiutava di accogliere del cibo, quasi qualche frammento tagliente di domenica fosse rimasto incastrato al suo interno.

"Come ti pare la tana del lupo?" scherzò lui, mentre estraeva dal frigorifero la cena.

Cleo lo seguì nel suo trafficare a fornelli, non sapendo come rispondere, tanto che fu costretta a stringersi nelle spalle quando l'altro le riservò un'altra occhiata preoccupata. "Nulla di particolare" rispose alla fine, spezzando un altro cracker. "Sembra pulita."

"Perché io non lo sono?"

"Non ho detto questo" puntualizzò lei con una smorfia. "Solo che... non so. Visto lo stato della tua automobile, mi aspettavo più disordine."

"Lo dici solo perché non hai visto dove dormo" replicò Francesco. "Mi sforzo a mantenere le apparenze almeno per il resto della casa."

Cleo non ebbe di che aggiungere. Stanca, scivolò sul freddo piano di granito del tavolo e rimase lì immobile, intenta a osservare la schiena ampia dell'altro per tornare, come le altre volte, al tatuaggio sul collo; non riusciva a immaginare quale significato possedesse il serpente che si mordeva la coda, ma, dopo la spiegazione sul capodoglio, era certa avesse avuto un buon motivo per scegliere qualcosa di così particolare.

"Ma quanti tatuaggi hai?" gli chiese, dando sfogo alla sua curiosità.

Francesco le rispose mentre buttava le polpette nell'olio bollente. "Quattro. A gennaio ne devo fare un quinto."

"In che senso devi?"

"Averne pari porta male" le rispose, per poi spiegarle cosa intendesse. "È una tradizione da marinai ottocentesca: prima di ogni partenza si facevano un tatuaggio, e averne di dispari indica che sei a casa, al sicuro."

"A me sembra solo uno spreco di inchiostro e soldi" replicò lei, sempre distesa sul tavolo. Forse avrebbe dovuto proporsi di dare una mano, ma era stanca e, oltretutto, non ne aveva affatto voglia, nonostante l'odore di fritto le stuzzicasse lo stomaco.

"Ogni tanto è bene essere scaramantici." Francesco si girò verso di lei e la squadrò alzando un sopracciglio. "Le buone maniere non te le hanno mai insegnate?"

Cleo si raddrizzò con un mugugno, i capelli che le finirono davanti al viso. "Devo aiutarti?" gli chiese con scarso entusiasmo.

"Apprezzo tu abbia almeno tirato su la testa dal tavolo" disse, per poi indicarle dei cassetti. "Prendi dei piatti e le posate, per favore?"

Sempre borbottando qualcosa tra i denti, Cleo si mise a fare ciò che le aveva detto, mentre l'altro stendeva una tovaglia e recuperava dei bicchieri e dell'acqua, nonché una bottiglia piccola di birra. Tempo di sistemare tutto, e lei si spalmò di nuovo sulla sedia.

"Non mi hai finito di parlare dei tatuaggi, però..."

"Di Moby Dick ti ho già detto qualcosa" rispose lui, mettendo in tavola un piatto con le polpette e una ciotola con dell'insalata. "Di quale degli altri tre vuoi sapere?"

"Due non so neanche dove siano" rispose Cleo, indecisa se avventarsi sul cibo o se attendere un attimo.

Francesco la salvò dall'impasse servendola. "Allora ti toccherà chiedermi di quello che vedi... a meno che non vuoi che mi spogli."

"Sei noioso quando fai così, lo sai?" rispose lei, arricciando il naso infastidita davanti alla risata che aveva scatenato nell'altro.

"È più forte di me, scusami" le disse con un sorriso. "Spesso sei così impassibile che mi viene naturale stuzzicarti. Fallendo, tra l'altro."

Cleo gli fece una linguaccia, per poi avventarsi su una polpetta. Non ebbe neanche il tempo di mandare giù il boccone che sentì aprirsi lo stomaco, grato di avere qualcosa di sostanzioso da mangiare dopo le ore di digiuno a cui l'aveva costretto.

"Buone?"

Lei annuì. "Molto."

Soddisfatto, Francesco tornò a concentrarsi sul suo piatto. "Comunque, è un uroboro" le disse, sfiorando il serpente. "È un simbolo che rappresenta la ciclicità del tempo e il rinnovo continuo. Un altro promemoria, insomma."

"E da quale libro salta fuori?"

"Nessuno di particolare" rispose lui, versandosi della birra. Allungò anche la bottiglia verso Cleo, chiedendole con un gesto se ne volesse, e lei annuì. "Ti sto già deviando?" le domandò scherzoso, versandogliene massimo due dita.

"In realtà sono solo stanca." Cleo passò l'indice sull'orlo del bicchiere. "Non solo nel fisico, ma proprio di tutto. Domenica è stata una giornata orribile, e non posso fare a meno di sentirmi in colpa per aver costretto mio fratello a seguirmi" aggiunse, prima di convincersi a bere un sorso. Non ricordava che la birra fosse amara. "Certo, mia madre poteva evitare di fare la sua solita scenata..."

"Non hai un buon rapporto con lei?"

"Non le piacciono le mie scelte." Cleo appoggiò il bicchiere con una smorfia e, poi, tagliò rabbiosa una polpetta. "Il nuoto non va bene, l'università è un capriccio, stare a Milano è stupido, Giulio è pessimo... odia tutto di me."

"Giulio sarebbe...?" le chiese Francesco. "E piano col coltello, che di questo passo mi spacchi il piatto."

Cleo si fermò all'improvviso, rilassando le spalle in tensione. "Il mio ragazzo."

L'altro non fece in tempo a commentare che il cellulare prese a vibrarle nella tasca dei pantaloni. La ragazza lo afferrò convinta fosse Neela, forse preoccupata del suo mancato ritorno a casa, ma il nome sullo schermo era tutt'altro.

"Parli del diavolo..." pensò con un sospiro, prima di accettare la chiamata. Fece un segno a Francesco per scusarsi e si alzò da tavola, tornando all'ingresso alla ricerca sia di un po' di privacy, sia per non far intuire a Giulio dove si trovasse.

"Ehilà" lo salutò, appoggiandosi al muro.

"Ciao" rispose lui. "Dove sei finita? Sono venuto da te ma non ti ho trovato, e neanche Neela sapeva dove fossi."

Cleo si morse il labbro inferiore, indecisa su come rispondere. "Sono da Dado" mormorò alla fine, pregando intanto che la coinquilina non si fosse lasciata sfuggire commenti su com'era andata la serata di venerdì o cose simili. Non sarebbe stata in grado di spiegargli cos'era successo, soprattutto per via telefonica. "Dopo essere stata in piscina è passato a prendermi... volevamo parlare un po' di domenica."

"Quindi il come al solito era proprio un come al solito."

"Già." Cleo si voltò a osservare una delle fotografie appese ai muri, che ritraeva Francesco in compagnia di quelli che dedusse essere i suoi genitori e una donna, dai lunghi capelli biondi e il viso morbido. "Non è che abbia molta voglia di parlarne al telefono, a dire il vero, e poi..."

"Tuo fratello ti sta aspettando" concluse Giulio con un sospiro. "Non ti preoccupare. Però sai che ci sono sempre se hai bisogno, vero?"

"Lo so" rispose, spostandosi su un'altra foto dove, invece, c'era Francesco da bambino, con in mano una lucertola e uno sguardo schifato. "Magari ne parliamo quando usciamo."

"Certo." Giulio fece una pausa, il suo respiro pesante che le trafisse il cervello. Cleo temette volesse aggiungere dell'altro, magari sul fatto che le mancava, oppure qualche scusa, o preghiere per convincerla a parlargli, ma l'altro la salutò. "Ti lascio cenare, allora. Ti amo."

"Anch'io..."

Cleo chiuse la chiamata chiedendosi se anche le ultime parole fossero una menzogna.

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