Cinquanta braccia

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Le mie case sono bianche. Dentro e fuori. Si allineano fianco a fianco su strette strade senza marciapiede su cui inutilmente hanno steso un nastro d'asfalto: il sole ha schiarito il grigio, l'ha divorato fino a cambiarlo in un ruvido cammino impolverato e pieno di buche.

Al mattino le case, pettegole, allungano la loro ombra verso la dirimpettaia, ritraendola poi, sempre più concisa, fino al piede dei muri, ridotta ai minimi termini dal mezzodì. L'aria ferma arroventata trema appena a centro strada, nel silenzio della canicola.

Un gatto si sposta nella striscia scura rasente al muro, infastidito dal fragore di cicale che si leva dai pini in piazza. Dietro le tende immobili, l'umanità boccheggiante attende che l'ora avanzi e la fornace si smorzi appena. Persino i bambini sonnecchiano sudati, coi capelli incollati e la saliva sulla guancia, con la bocca spalancata in cerca d'aria. Le donne sedute agitano pazienti un pezzo di cartone a mo' di ventaglio, finito di rigovernare la cucina. Gli uomini dormono stracchi in canottiera nelle stanze buie con le finestre chiuse. L'aria fuori è fiato di vulcano ed è meglio, allora, quella intrappolata tra i muri spessi di tufo e le alte volte a crociera.

Il paesino brilla bianco di calce, riflettendo la luce d'agosto come un pezzo di sale. Un cristallo che sa di mare, amaro e prezioso.

Tutto qui viene dal mare, la pietra stessa dei muri è sabbia che il tempo ha mutato in roccia. Roccia tenera, però, che si cava e si sega in blocchi squadrati, roccia che il mare di tanto in tanto autentica, firmandola con grosse conchiglie, a conferma della provenienza e della proprietà. Quando il fondo dell'antico mare s'è sollevato, denudandosi dalle acque e asciugandosi al sole, sono pur sempre rimasti interamente suoi questi luoghi: piatte distese appena vestite di un velo di terriccio rosso come la ruggine.

Poco terreno sulla pietra che a stento sostiene piante ben resilienti. Ulivi, fichi, mandorli e viti, lì dove gli uomini hanno divelto i lecci e il lentisco. Piante che resistono alla sete, perché la pioggia attraversa rapida il terreno e si perde nella profondità, in una rete di fiumi sotterranei, tanto ricca quanto inaccessibile per i contadini che scavano ostinati profondi pozzi, sulla parola di vecchi che dicono: "Qui".

Quanti ne son morti, nel crollo improvviso di pareti che sembravano solide! Ma per l'acqua si rischia tutto. E le case, le case han tutte terrazzi che convogliano la piovana in una cisterna, la riserva per ogni uso che non sia bere. Ogni casa una cisterna intonacata, sepolta e, nella cisterna, un'anguilla che la tenga pulita, mangiando girini e insetti annegati. Per bere, invece, si va insieme alla fontana con le mezzane, donne e ragazzini. Ma non a quest'ora, certo. Quest'ora esigerebbe il riposo e mi spiace per la mia casa, che oggi ha la tenda arrotolata. Ma deve rimanere aperta, è la legge. La coccarda viola lo dice, e allora le mosche entrano a volontà attirate dall'odore.

D'estate non starebbe bene morire, ma succede. La veglia si vena di ulteriore pena, col caldo che fa accelerare certi processi. L'odore intenso dei fiori si somma a quello dolciastro che fa mormorare le comari sedute, che non sanno come consigliare di chiudere la bara. Ma la vedova attende un figlio in viaggio, da Torino, e non vuol chiudere. Deve poterlo salutare un'ultima volta.

Che saluterà mai, penso io. Un pezzo rigido di carne fredda, un volto che non si riconosce, mani conserte dalle macchie bluastre, un rosario che non ho mai recitato nella destra e un fazzoletto nella sinistra. E il mio cappello sulle gambe, inseparabile per le uscite in piazza, ogni sera, a fare due chiacchiere con i compari. Allora tengono ancora il coperchio in piedi, appoggiato al muro, e una zanzariera tesa sulla salma, da cui la donna paziente scaccia le mosche, l'ultima volta che farà la guardia ai miei sonni.

Alle quattro arriverà il prete, grondante sudore sotto i paramenti nel fuoco della controra, e tutti si preoccupano che non arrivi in tempo il figlio. Preoccupazione che rimbalza di bocca in bocca, mentre la stanza si riempie di donne e gli uomini si stipano nella cucina. Dalla stanza col morto vengono preghiere e lamenti soffocati, via via più forti coi minuti che passano. Poi un'esplosione di pianti e singhiozzi annuncia che è a casa l'atteso viaggiatore. Appena in tempo, ché già esce il parroco coi chierichetti dalla sacrestia.

Sarà una cosa lunga, la mia casa è lontana. Porteranno la bara a spalla in chiesa sotto il sole che picchia e la gente dietro ricorderà questo funerale, è certo.

Sapete che c'è? Son stanco di questa scena, l'ho vista troppe volte da comparsa. Da protagonista posso risparmiarmela e sinceramente lo faccio volentieri. Tanto non se ne accorgono. Preferisco salutare il mare che brilla cobalto sotto il sole abbagliante. Un ultimo sguardo e passo a scoprire se ci sia veramente un posto più bello. Dovrebbe esserci tanta acqua dolce, lì, senza scavarla a cinquanta braccia.

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