.32. Sii forte, Geneviève.

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Barcellona, 
17 Dicembre 1808.

Il capo, Jonathan, mi accompagnò in una stanza situata al terzo piano: molto piccola con un letto ancora più piccolo e una finestra in alto posta su quello che doveva essere il tetto.

Faceva freddissimo e i pensieri non volevano lasciarmi in pace, così per la prima mezz'ora non riuscii a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo nelle coperte con il terrore che un uomo di quelli che avevo visto di sotto salisse e mi trovasse. O il padrone. Se mi avesse trovato il padrone? Era una probabilità che dovevo accettare. Lui era molto potente, era un conte. E il conte di Barcellona aveva tutto sotto controllo, sempre.

Mi avrebbe trovata. Sarei dovuta scappare all'alba? Fuggire prima che il capo si svegliasse e mi costringesse a restare?

No, non potevo. Non dopo che avevo svelato la mia vera identità a quell'uomo che non faceva altro che ricordarmi la mia pessima infanzia. Ma lui non c'entrava niente con quello che mi era successo. Mia nonna era morta nel sonno, lui non aveva fatto altro che portarmi via da quel luogo intriso di lacrime e dolore.

Mi aveva dato una casa e poi mi aveva fornito un lavoro. Aveva combattuto per non farmi diventare una giovanissima prostituta. E ora? Eccomi qui in un bordello alla ricerca di un posto dove nascondermi.

E se mi avesse venduta come prostituta anni e anni fa? Cosa ne sarebbe stato della mia vita? Magari dopo un po' mi sarei abituata al sesso. Agli uomini con gli occhi di fuoco pronti a strapparmi di dosso i vestiti con pochissima grazia. Con un solo scopo, e io avrei dovuto fare in modo di realizzare i loro desideri più oscuri.

Solo a pensarci mi veniva di nuovo da vomitare.

Ovviamente il padrone non era l'unico motivo per cui non riuscivo a dormire. Avevo visto morire l'amore della mia vita, e non ero riuscita a salvarlo in tempo. Lui per me stava rinunciando a tutto, e io lo avevo lasciato morire senza soccorrerlo. Mi faceva male il pensiero di lui, il ricordo di lui steso in terra in una pozza rossa. E il fucile ancora caldo. E il padrone con quel sorriso maligno.

Quando finalmente presi sonno erano circa le due di notte, forse più tardi.

E in un battito di ciglia fu mattina.

Mi alzai dal letto con poca grazia cercando di capire che ora fosse dalla posizione del sole nel cielo, ma fuori nevicava. Potevano essere le sei come le undici di mattina. Non si capiva e io avevo decisamente dormito troppo perché di certo non era più l'alba.

Quindi addio alla mia possibilità di scappare.

Qualcuno bussò alla porta e di istinto mi strinsi nelle spalle coprendomi il più possibile la veste bianca che portavo sotto al vestito della notte prima. Non era fatta per essere vista.

<<Soledad?>> disse qualcuno che riconobbi fosse Alonso. <<Il capo vuole vederti.>>

<<Va bene.>> mi sforzai di rispondere. <<Sarò al più presto da lui.>>

<<No, devi uscire adesso. Al capo non piace aspettare.>>

Mi infilai il vestito da domestica e sulle spalle di nuovo quella coperta rossa che in qualche modo mi faceva sentire al sicuro. Come uno scudo contro tutto e tutti.

Mi guardai nello specchio e vidi una ragazza pallida con delle profonde occhiaie e gli occhi terrorizzati. Il naso rosso per il freddo e le lentiggini ancora più pronunciate. Quelle maledette lentiggini che odiavo. Raccolsi i capelli umidi per il freddo della stanza in una treccia laterale e mi pizzicai le guance sperando di acquisire più colore.

Sospirai. <<Sii forte, Geneviève.>>

..........................

Erano almeno cinque minuti che tremavo per l'ansia seduta di fronte alla scrivania di Jonathan, esattamente nello stesso punto della sera prima. Lui mi guardava senza dire una parola, con le braccia poggiate sul legno e la testa su di esse. Mi studiava, mi osservava a fondo e io mi guardavo intorno in totale imbarazzo.

Dopo quella che mi sembrò un'eternità, finalmente il capo abbandonò quella posizione e poggiò la schiena contro lo schienale della sua poltrona. Incrociò le gambe e alzò il mento coperto dalla barba scura.

<<Come hai dormito?>>

Uno schifo, avrei voluto rispondere. <<Bene.>>

<<Bene, bene...>> mormorò. <<Sei pronta a parlarmi di quello che ti è successo?>>

Mi presi le mani tra le mie e mi preparai a parlare. <<Sono stata venduta ai Castro qualche anno fa. Solo di recente il signor Castro si è accorto di me e da allora la mia vita è stata tutta un turbinio di emozioni. Mi provocava, mi faceva posare per i suoi quadri e così mi ha sedotta. Ed io sono caduta nella sua trappola.>>

Jonathan annuì. <<E sei scappata.>>

<<Sì, ma non è tutto.>>

<<Va avanti.>>

Mi morsi un labbro. <<Si faceva chiamare padrone perché era il padrone assoluto dei corpi di tutte le donne che lavoravano per lui. La moglie lo sapeva e ne soffriva. Io ero solo una delle tante che aveva conquistato, un giocattolino che poteva usare quando voleva. Ben presto ho capito che dietro all'uomo di bell'aspetto e nobile si celava un mostro senza cuore che se non otteneva ciò che voleva diventava violento. Un giorno mi ha violentata, mi ha provocato tanto dolore da farmi pensare che alla fine ci sarebbe stata la mia morte...>>

Vidi il capo deglutire e stringere i pugni, le labbra serrate. <<Ti ha violentata...>> ripeté più a se stesso che a me. <<E a quel punto sei scappata?>>

<<Non esattamente.>>

<<Va avanti.>>

<<Avevo paura che lo avrebbe fatto altre volte nonostante non facesse altro che ripetermi che mai più sarebbe successo, così facemmo un patto. Lui avrebbe preso il mio corpo ogni qual volta ne avesse avuto voglia e in cambio mi promise che non mi avrebbe più picchiata o violentata. Funzionò per un po', poi incontrai Juan Garçia, il ragazzo divenuto uomo per cui lavoravo prima. Con lui sono affiorati tutti i ricordi legati a quel periodo e così anche il forte sentimento che ci legava a mia insaputa. Il padrone però si è accorto di quel legame, allora ha fatto in modo che sua figlia lo sposasse così da dividerci. Siamo scappati insieme due giorni prima del matrimonio.>>

Jonathan sembrò essere sul punto di farmi un'altra domanda, ma io la conoscevo già così lo precedetti. <<Siamo scappati attraverso un varco nel confine della proprietà, ma pochi istanti prima che anche lui superasse il confine il padrone lo ha sparato. Io sono fuggita via e l'unica abitazione con le luci accese era questa. Voglio lasciare questo paese per paura che mi ritrovi e mi costringa a lavorare di nuovo lì o peggio ancora... che mi spari.>>

Piansi.

Piansi così tanto da vergognarmi della mia fragilità.

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