🦜 TALK TALK | LAUGHING STOCK 🦜

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Artista: Talk Talk
Album: Laughing Stock
Anno: 1991
Generi: Post-Rock, Art Rock, Folk, Rock Sperimentale, Jazz Rock

È autunno inoltrato. Siete sdraiati sul letto, avvolti dalla coperta in cui ormai sono rimasti impressi i vostri ormoni. Fuori dalla finestra l’albero che vi osserva ogni giorno si sta spogliando e le foglie marroncine si staccano dai rami per fluttuare delicatamente a terra. Non state facendo niente, siete solo incantati a fissare la vista delle foglie che cadono. Vi chiedete perché lo state facendo. Se siete semplicemente annoiati o se avete visto troppi film e ormai considerate normale anche un gesto tanto romantico. Forse c’è uno stimolo più sincero dietro, eppure non provate che l’ombra di un sentimento. Una malinconia sottilissima e inspiegabile mista a un’impalpabile gratitudine per ciò che siete. Un rimorso per non essere sempre riconoscenti verso la vita. Una sensazione che dura un secondo prima di sparire. Le campane della chiesa del paese cominciano allora a suonare. Voi sprofondate ancora di più nel sarcofago di coperte e vi raggomitolate lì, in un momento di lucidità che non ha ragione di esistere, e vi godete la quiete. Questo è Laughing Stock, l’ultimo album della band inglese “Talk Talk” prima del loro scioglimento. Di solito sono un soggetto che non si emoziona facilmente ascoltando musica. Quando qualcuno mi dice “Oddio, quanto mi fa piangere questa canzone” io mantengo un viso di pietra mentre me la fa sentire. Magari sorrido imbarazzato e farfuglio qualcosa tipo “Sì, in effetti l’atmosfera è un pochino malinconica”, ma proprio se voglio sforzarmi per non sembrare stronzo. Per tirare fuori qualcosa dal mio arido cuore di pietra serve davvero una traccia struggente, non bastano una scala di re minore ad hoc e un testo moderatamente triste e personale. A questo mondo esistono solo due canzoni che riescono a commuovermi ogni volta che le sento. Una di queste è “After the Flood” e proviene proprio da questo disco. Forse i nove minuti più ispirati della storia della musica britannica, almeno per me. Riesce a rendermi infinitamente triste in qualunque momento, che io stia festeggiando un compleanno o che sia seduto sul cesso ad espellere un escremento più testardo del normale. Una volta su due mi fa scendere anche qualche lacrima. Sì, sono un piagnone. Prendetemi pure in giro, ma prima dovrete aver ascoltato la canzone almeno una volta. Cos’ha questa traccia di tanto speciale, a proposito? Mi ricorda forse un evento drammatico? Era la traccia preferita di un mio amico prima che morisse? No, niente di tutto ciò. È semplicemente la canzone triste più riuscita di sempre. Da dove cominciare? Magari dalla performance del cantante Mark Hollis, ahimé morto da poco tempo, carica di un dolore e di una desolazione terribilmente umani. Ogni volta che durante il ritornello canta:

“dead to respect
to respect to be born
lest we forget who lay”

mi assale una voglia matta di abbracciarlo e piangere assieme a lui. Vorrei consolarlo e ringraziarlo di aver impresso un malore tanto intimo quanto universale mediante della musica perlopiù strumentale. Che poi lasciate stare le interpretazioni bibliche delle lyrics che trovate online. Per me il suo messaggio è totalmente differente e il testo mi parla in maniera molto più intima e profonda. Lui dice di rispettare di essere nati, di non piangersi addosso. È la risposta alla domanda sul perché si è stati messi al mondo solo per fallire miseramente e assistere a una spirale di dolore invocando la morte. Perché questo dolore è condiviso tra tutti noi esseri umani e la vita va sempre avanti. Il futuro è costruito sulle orme lasciate da coloro che sono morti, ma tu ora sei vivo.
Nonostante sia una traccia infinitamente depressa, perciò, in realtà è per metà un inno di speranza e per metà un cantico di rassegnazione umana che si sposa benissimo con la musica. Gli accordi basilari sono ripetuti per tutti i nove minuti senza mai sembrare ripetitivi. Anzi, la canzone vola e sembra durare molto meno rispetto a ciò che ci si aspetta. Nonostante sia una traccia rock, poi, ci sono parecchi altri strumenti ad accompagnare le lamentele della chitarra e la batteria. L’organetto, l’armonica a bocca, le viole... niente prende mai il sopravvento mentre si costruisce un flusso di texture sonore in continuo movimento. Quando subentra la chitarra distortissima, che sembra quasi uno straziante singhiozzo di dolore, si comprende che ogni strumento sta partecipando a un dolcissimo canto collettivo. Questo perché Hollis ha voluto che l’album nascesse direttamente dalle emozioni dei musicisti invitati a partecipare. Non ci sono mai stati spartiti scritti durante le registrazioni del disco. A ogni artista sono stati consegnati accordi su cui improvvisare, seguendo liberamente il proprio flusso emotivo senza virtuosismi e senza ascoltare ciò che avevano già registrato gli altri. Ciò che ne è derivato è un insieme di performance non sinergetiche ma a loro modo intime ed essenziali al mix di strumenti complessivo, anche grazie alla modalità di registrazione. Hollis, infatti, ha orchestrato tutto in maniera tale che sembra che la band stia suonando nella tua stanza, anche con gli auricolari su. Questo spazio riservato a ogni strumento e queste registrazioni dettagliate (ma leggermente) lo-fi evocano un’atmosfera veramente unica, aumentando parecchio la potenza emotiva della musica e creando un soundscape intimo e domestico. Laughing Stock, perciò, sembra un album improvvisato in una stanza buia nella casa dei tuoi vicini. E adoro alla follia quest’immagine.
“After the Flood”, comunque, non è l’unica canzone dell’album. Le altre tracce sono tutte stupende a loro volta, in particolare “Ascension Day” e “New Grass”. L’atmosfera rimane sempre estremamente coerente, rendendo l’ascolto dell’album un’esperienza solidissima, e non c’è un solo secondo che non comunichi qualche emozione. Un’altra peculiarità del disco è che è molto quieto e fa un uso sapiente del silenzio. Hollis non satura mai il mix e gestisce lo spazio di ogni strumento con estrema delicatezza per ottenere l’estetica di cui ho parlato. Proprio per questo chiede un ascolto attento, magari ad occhi chiusi per lasciarsi trasportare dal turbine di emozioni che scaturisce da ogni traccia. Non è un album scritto per essere sentito mentre si lava i piatti (come altri lavori che ho consigliato in passato), questo si merita davvero la piena attenzione di tutti. Ogni canzone è intrisa di una miriade di dettagli sonori che sarebbe davvero scortese ignorare.
L’essere fenomenale, comunque, non è l’unico pregio di questo disco. Laughing Stock, infatti, è accreditato (insieme a Spiderland degli Slint) come l’album che ha fondato il genere post-rock all’inizio degli anni ’90. In effetti era veramente un lavoro sperimentale per il tempo in cui è uscito, tanto da aver disorientato l’etichetta discografica in un primo momento. Adesso, purtroppo, non suona più straordinariamente originale come trent’anni fa, ma è ancora ritenuto uno dei dischi migliori di sempre da parecchie persone. La sua atmosfera, malinconica e agrodolce con punte lievemente jazz, regge il peso degli anni in modo fenomenale. Inoltre, a causa della genuinità delle emozioni in esso contenute, è quasi impossibile che non piaccia a chi è appassionato di musica in generale. A parte ai critici della rivista NME, a quanto pare, che gli hanno dato un 4/10. Ma si sa che NME è ridicola quindi lasciamo stare. Laughing Stock è un disco intenso e caloroso che amo con tutto il cuore e che riesce sempre a commuovermi. Non c’è nulla di cinematografico e artificiale, solo una breve raccolta di tracce flebili e intime scritte per catturare la solitudine che accompagna l’uomo nel suo percorso di vita. Tra cenni religiosi e sincere espressioni di desolazione psichica, i temi affrontati sono davvero duri. Eppure Hollis tratta tutto con estrema umiltà e dolcezza, facendosi voce di quella malinconia inafferrabile mista alla gratitudine che troppo stesso sopprimiamo, tanto siamo abituati a vivere negli agi. Ecco: per concludere e riassumere tutto con una sola parola, Laughing Stock è un disco umile e sincero. Lo consiglio a tutti, specialmente “After the Flood” che è tra le mie tracce preferite di sempre. Può darsi che vi piaccia, può darsi che non vi dica niente. Fatemi sapere. Bene, sinfonauti! Come al solito vi saluto ponendovi qualche quesito per verificare che siate stati attenti durante la lezione. E voi? Conoscete altri album che vi mettono addosso una malinconia indescrivibile? Ciò è perché sono legati a eventi passati oppure la musica nuda e cruda è già abbastanza triste da non avere bisogno di rinforzi? Sono sempre disponibile per consigli, discussioni e rimproveri e spero che vi animiate un po’ di più visto che la rubrica ha già abbastanza letture ma quasi nessun commento. O magari ditemi se parlo di robe troppo strane. Non sono mai in grado di creare qualcosa che piaccia a un pubblico che non sia io :(
Buona serata, cari sinfonauti, e siate felici per ciò che avete. Come canta Hollis, la nostra felicità è frutto del dolore dei nostri antenati e non si è mai abbastanza riconoscenti della vita che si ha. Bye!

R.I.P. Mark, ci mancherai

Tracce Preferite: Ascension Day / After The Flood / Taphead / New Grass

Bizzarrometro: 2,5/5

Voto Personale: 9,5/10

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