3 luglio 1676 pt. 2

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Rientrati che furono dalla passeggiata mattutina con le scorte per la settimana, Ferraris e Giovannino si trattennero in piazza per chiacchierare con alcuni passanti; Ludovica fece i capricci, perché voleva andare a giocare, mentre Galatea insisteva affinché restasse in casa ad aiutarla con le piccole faccende domestiche. La bambina dovette cedere alle richieste della madre, non senza farle pesare la propria rinuncia: sistemò svogliatamente i vestiti usati come giaciglio, rassettò il letto matrimoniale, preparò la tavola quando fu l'ora. Galatea, intanto, aveva pulito il pavimento e rimosso la cenere dal camino, quindi era andata a prendere altra legna e infine si era messa a tagliare verdure. Aveva intenzione di preparare, per la cena, una ricetta nuova di cui aveva sentito parlare in un raduno di donne dove, al posto che pregare il rosario, si chiacchierava dei fatti più eclatanti di cui si avesse avuto notizia. Galatea, che non era di per sé una pettegola, partecipava tuttavia a queste combriccole per racimolare indizi; più di tutto le interessava approfondire la questione dell'omicidio della ragazza sconosciuta. Un sesto senso materno, infatti, la metteva in guardia a non sottovalutare un incidente come quello, perché avrebbe potuto essere significativo per quanto la riguardava di più, ossia il tentato rapimento di Ippolito.

Era malinconica ultimamente e forse proprio a causa di quei cicalecci da donne: le loro storielle, ciò che ai loro occhi appariva strano o buffo o risibile, non erano altro che fatti della vita di altri di cui forse esse stesse erano invidiose, fosse anche solo per il fremito che percorreva la loro schiena a discorrere di adulteri o di tresche o di amori lascivi; quando non si trattava di argomenti pruriginosi, spesso erano i successi o gli insuccessi dei vicini a far montare la polemica: un matrimonio che non pareva equilibrato – e in cui necessariamente doveva celarsi qualcosa di morboso –, un guadagno insperato che doveva per forza provenire da fonti illecite, un precipitoso vortice di depressione che all'improvviso risucchiava le sostanze di una persona generosa e la riduceva alla miseria, giusta punizione per una qualche sorta di vanità nascosta sotto le donazioni gratuite.

E lei pensava ai bambini lontani, ai genitori, ormai oltre la soglia dei cinquant'anni, al fratello prossimo al matrimonio e alla sorellina che da anni non vedeva più. Più di ogni cosa, però, erano i visini dei gemelli a comparirle davanti quando abbassava le difese, quando, distratta durante i discorsi delle vicine inacidite, spostava gli occhi verso il cielo azzurro e vi vedeva come riflessi gli occhi di Ippolito e di Costanza. Sentiva le loro risate gaie nella mente come un'eco e voltava la testa di qua e di là per scorgerli, ma non c'erano. Ancor più triste era il silenzio di Ottavio, dietro cui si celava un dolore identico al suo e allo stesso tempo la consapevolezza di star facendo qualcosa di necessario alla loro sicurezza. Questo era la forza che la faceva andare avanti.

Scoccarono le undici e mezza, tempo di scendere in cortile ad attingere acqua al pozzo; lasciò Ludovica alle sue piccole faccende, chiuse a chiave la porta e scese le scale, attinse l'acqua e si rintanò subito nell'androne, temendo che qualche donna la vedesse; non era consapevole di questa paura, eppure passò più tempo a guardarsi attorno per assicurarsi di essere sola che a fare attenzione ai ripidi scalini che saliva a due a due portando il pesante secchio d'acqua. Trovò Ludovica seduta per terra davanti al camino spento, posò il secchio e chiuse la porta; solo allora si sentì protetta. Chinatasi per afferrare nuovamente il manico arrugginito, lanciò un'occhiata in basso e notò sulla superficie dell'acqua i contorni di un viso familiare.

"Prudenza!" pensò e la figura si fece più nitida.

«Mamma?» pigolò Ludovica.

Galatea guardò la bambina: aveva gli occhi grandi di spavento e, ora che era in piedi, stringeva forte una mano sull'altra. L'aveva vista impallidire, probabilmente, oppure si era accorta del suo stato malinconico.

«Tutto bene, tesoro. Vuoi un dolcetto? Guarda nella madia, dovrebbero essercene... Ma attenta alle dita!» disse per rallegrarla e la vide, anche se un po' titubante, dirigersi verso la madia per prendere un biscotto o una frittella. Poté dunque rivolgersi di nuovo al secchio, da dove Prudenza la fissava emblematica.

"Che cosa mi sta accadendo, Prudenza?" pensò di nuovo, inginocchiandosi a terra.

«Ciò che ti accade non è sempre sotto il tuo governo, figlia di mercante. Lascia da parte questi crucci e chiediti piuttosto come fronteggiare la ventura», rispose con tono placido e saggio. Galatea chinò la testa, sopraffatta da troppi pensieri e troppe preoccupazioni: "Mancava solo Ferraris in tutto questo!"

«Ferraris c'è sempre stato, Galatea. Così come Ottavio, tuo marito.»

"Allora vuol dire che entrambi mi hanno abbandonato."

«Sei troppo dura con loro e con te stessa: ciò che vi è accaduto, te lo ripeto, è fuori dal vostro controllo.»

"Queste sono le scuse che usano i deboli."

«Queste sono le conclusioni cui arriva chi si pone domande», la corresse.

Galatea sbuffò, afferrò il manico del secchio e si avvicinò al camino, pose tre ciocchi di legna sulla grata e aggiunse paglia e rametti. Afferrò la pietra focaia e con due colpi secchi fece scaturire una fiammella che attaccò subito la miccia; mentre il fuoco prendeva sempre più vigore, versò parte dell'acqua nella pentola e appese quest'ultima al gancio che pendeva sopra la fiamma.

«Non essere sorda alle mie parole», la rimproverò Prudenza, parlando dentro di lei. «Se smetterai di darmi ascolto, allora sì che sarà colpa tua.»

"Io vorrei solo tornare ad essere felice. Vorrei sentirmi amata, vorrei sentirmi considerata; invece qui tutti si fanno beffe di me."

«Non mi pare che questa mattina il signor Ferraris ti abbia ignorata; e ho percepito una sensazione di piacere nelle tue viscere.»

Smascherata, Galatea avvampò, le sue gote si fecero più rosse del fuoco stesso e i suoi occhi lucidi di desiderio; tuttavia disse: "Ciò che provo è sbagliato, non dovrei fare di questi pensieri."

«Non cedere alle emozioni che senti di non poter sostenere; nemmeno a quelle cattive. È troppo tempo, ormai, che ti crogioli nella malinconia; nulla potrà farti riemergere se non molli i pesi che ti fanno affondare.»

"Quel peso è mio, ne sono gelosa."

«Non lamentarti, allora, di essere abbandonata e sola: gli egoisti finiscono tutti così.»

"Esiste egoismo nel dolore?"

Il campanile scoccò il mezzogiorno e Galatea sobbalzò vedendo l'acqua bollire; vi gettò abbondanti manciate di lenticchie aggiungendo un pizzico di sale e qualche foglia di alloro. Non passò molto tempo che Ottavio fu di ritorno e salì solo, prima di Ferraris e di Giovannino. Aveva una luce nuova in volto e, non appena entrò, l'angusta cucina sembrò riempirsi di lui. Galatea si allontanò dal camino per accoglierlo, una sensazione di morsa fredda sul collo. Temeva che leggesse nei suoi occhi un'ombra di impudenza; allo stesso tempo, sperava la scoprisse, la cogliesse per trarne vantaggio.

Ottavio fu contento di vederla e sarebbe corso da lei, se Ludovica non fosse scattata, agile e veloce, per abbracciarlo: era sua abitudine farlo quando suo padre tornava a casa per pranzo. E fu una fortuna che lo fece anche quel giorno, perché Ottavio aveva tutta l'intenzione di prendere Galatea e sollevarla, stringerla forte. L'intermezzo giocoso di Ludovica gli servì a riacquistare calma e pazienza, come Ferraris gli aveva consigliato. Se d'un tratto, infatti, avesse manifestato l'intensità dei suoi sentimenti, lei l'avrebbe respinto. Quando si rialzò dall'abbraccio della figlia, dunque, Ottavio era un uomo diverso da quello che era entrato: era il solito prudente, razionale marchese Malancisi. Galatea, comunque, intuì quella luce nuova che brillava sul suo volto e ne sorrise impercettibilmente, avvertendo dentro di sé una dolce dicotomia sempre più netta: da un lato arrossiva di fronte a quello sguardo, dall'altro titubava in preda alla soggezione.

Lui si avvicinò lentamente, atteggiandosi nella maniera più naturale possibile.

«Papà! Oggi siamo andate a passeggiare con il signor Ferraris!» esclamava Ludovica, strattonandolo per la manica della camicia.

«Sì?» domandò Ottavio guardando Galatea; e lei rispose: «Vivì ha voluto comprarti una focaccina per pranzo».

Lui ringraziò, diede un bacio alla bambina e la rispedì a giocare; si volse poi alla moglie con l'aria di doverle dire qualcosa, ma rimase zitto. Lei si incuriosì e si avvicinò ancora di più, al che lui si decise a dire: «Sei molto bella oggi; sei bella sempre, ma oggi di più».

Sorpresa dalla cortesia inusuale, Galatea nascose le mani dietro la schiena e sorrise pudicamente, richiamando tuttavia dalla memoria i fatti della mattina, che le colorarono il viso più della lusinga. Ottavio, che non poteva saperlo, pensò che il rossore fosse dovuto alle sue parole e, prendendo coraggio, cominciò a parlarle sottovoce: «Voglio portarti sulla spiaggia: se Ferraris terrà i bambini, noi potremo pranzare da soli in riva al mare».

«È una bella proposta, grazie», replicò, divertendosi a fare la ritrosa. In quel mentre la porta si aprì e Giovannino mise il naso dentro. Dopo di lui, che finì risucchiato dall'euforia di Ludovica, entrò Ferraris e si fermò all'ingresso. Tra i due uomini corse uno sguardo carico di significato e Galatea temette in un nuovo accesso di gelosia da parte di Ottavio; nulla si verificò e lei rimase come sbigottita. Lui tornò a guardarla con la stessa intensità di un attimo prima, sollevò la mano e le sfiorò la guancia; lei reclinò la testa nel suo palmo, chiuse gli occhi per non vedere Ferraris e, alla fine, sentì le sue dita insinuarsi dietro la nuca. Fremette a un ricordo più antico e più doloroso,serrò i pugni e si sottrasse all'improvviso; con una scusa si rifugiò incamera, accostò la porta e soffocò singhiozzi di rabbia impotente.

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