4.

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Il temporale imperversava da ore.

Con ritmica cadenza, cupi boati inseguivano bagliori splendenti. Il vento sferzava le cime degli alberi che, sconquassati dal turbinio, creavano sinistri echi di anime perse.

La prima cosa a cui Jacopo pensò fu il suo cavallo. Goffredo l'aveva spostato in un'ala del loggiato più riparata dalla furia delle intemperie. Eppure, lo sentiva nitrire furibondo, là, nascosto dalle mura.

Se ne stava seduto sul letto, le mani giunte sotto il mento e il core palpitante di chi pensa di aver abbandonato un amico. Colto da mille sospiri, l'ultimo nitrito di puro terrore, nel buio della notte, alla fine lo smosse e lo incitò a raggiungere l'animale.

Afferrò la mantella che teneva nella borsa da viaggio e se la gettò sulle spalle, andando ad annodare il laccio appena sotto la gola. Uscì in fretta.

Venne fermato sulla porta da Marianna, curiosa di quella strana uscita nel cuore della tormenta e non poté celarle il suo intento. Non ch'egli non si fidasse di loro e della loro esperienza ma, abituato com'era a gestire tutto in prima persona, voleva a tutti i costi riuscire a calmare il cavallo, onde evitare che qualche movimento inconsulto recasse danno alle ferite in via di guarigione. Indubbiamente, non era auspicabile che perdesse altro tempo. Roma chiamava.

Uscì nel cortile accolto da un lampo abbagliante, che gli fu comunque d'aiuto per individuare la povera bestia, legata per la cavezza ai due lati, imbizzarrita, in cerca di fuga. Strattonava le corde ben fissate agli anelli conficcati tra le pietre della parete, mentre un terzo canapo lo teneva per il barbozzale legato direttamente alla colonna di marmo. Di fatto, gli era quasi impossibile qualsiasi movimento fuorché ondeggiare febbrilmente con la groppa da un lato all'altro del loggiato.

Jacopo lesse il terrore nelle pupille orizzontali e nel respiro affannato.

Poco avrebbe potuto fare per il boato dei tuoni, mentre contro all'accecante riverbero dei fulmini decise di utilizzare il proprio mantello a mo' di cappuccio, come aveva visto fare allo stalliere alla corte di Mantova in circostanze simili: sciolse il legaccio e lo gettò sulla testa dell'animale, a coprirne la vista.

Il cavallo, dapprima intimorito dall'oggetto lanciatogli addosso, tentò l'impennata, prima di abbandonarsi lentamente e faticosamente alla calma. Abbassò la testa, smise a poco a poco di ondeggiare, rimanendo guardingo e accogliendo il rombo successivo con un fremito che andava via via affievolendosi.

Quando il baio si fu calmato, si sedette a terra, di fronte a lui, a distanza di sicurezza dalla possibilità, non remota, d'esser colpito da uno zoccolo. Si lasciò andare contro la parete del loggiato, scivolando a terra e scuotendo dai capelli la pioggia che l'aveva infradiciato. Rimase in ascolto del violento mugghiare del vento, ben apprezzando l'aria frizzante che il temporale sprigionava. Decise di attendere qualche minuto, nella speranza che la pioggia battente rallentasse un po'.

Essere spettatore di un evento di quella portata, immerso nella selva in cui il castello Malaspina sorgeva, gli sembrò fra le cose al contempo più terribili e meravigliose a cui avrebbe mai potuto assistere.

Il portone si dischiuse e Marianna, dall'interno, reggendo una fiaccola la cui fiamma danzava vorticosamente, gli fece cenno di sbrigarsi a rientrare.

Jacopo fissò saldamente il mantello alla testa del cavallo e si diresse spedito verso la porta.

Una saetta.

Il regolare susseguirsi delle merlature. Interrotto.

Un guizzo dello sguardo diretto là, sul camminamento di ronda.  

Volo nero di corvo. Riflesso candido, stagliato contro al turbine sospinto dal vento.

Corse.

E lo sguardo rapito seguì il movimento, finche non si perse nella notte.

Fradicio e sbalordito, Jacopo riportò la sua attenzione su Marianna, incuriosita anch'ella dall'oggetto che aveva catturato la sua attenzione, immobilizzandolo a metà percorso, sotto la pioggia scrosciante. Raggiunse il portone con ampie falcate e, incurante dell'acqua che abbandonava per terra e del freddo che si impadroniva delle ossa, prese Marianna per le spalle, puntandole addosso gli occhi nocciola:

«Ditemi che l'avete vista anche voi, Marianna!»

«Non capisco di cosa stiate parlando, messere. Chi avrei dovuto vedere?»

Chi.

Di nuovo, Marianna sapeva. Cose che non voleva rendere note, segreti che non aveva intenzione di svelare.

«Ditemi come posso arrivare al camminamento di ronda!»

«Signor Branciforte, è pericoloso avventurarsi lassù con questo tempo.»

«Non m'importa, Marianna. Ditemelo!»

«Potrebbe attendere la mattina, non crede?»

«Marianna! Voi m'avete accolto da forestiero e ve ne sono grato, ma rammentate che provengo dalla corte di Mantova, non mi sarebbe difficile interessare il castello di attenzioni moleste!»

Si pentì, di quanto aveva appena detto. Lo fece nello stesso momento in cui lo sguardo della donna si abbandonò al dolore della sconfitta.

Tremante, indicò un corridoio dal lato opposto del salone: «Per di là, vi sono delle scale. Portano alla merlatura che conduce alla torre dall'altro lato del castello.»

Avrebbe voluto ringraziarla e scusarsi per le aspre parole che le aveva rivolto. Il segreto che custodiva per conto di quella ragazza doveva essere talmente gravoso da impedirle di essere del tutto obiettiva. C'era dell'altro, oltre a quel muro di silenzio. La premura di raggiungere la merlatura e raggiungere quell'ombra sfuggente lo vinse. Lasciò andare Marianna e si precipitò verso le scale che lei gli aveva indicato.

Salì i gradini difformi a due alla volta, fino a raggiungere la porta pesante che dava all'esterno. L'aprì trattenendo a fatica la forza delle folate.

La pioggia imperversava. La pietra riluceva, fradicia. C'era seriamente il rischio di uscirne ferito.

Al termine del camminamento, ampi gradoni seguivano il salire del tetto sottostante e giravano appena attorno alla sommità della torre.

Il drappo scuro ondeggiò al vento e scomparve tra le mura.

Jacopo trasse un respiro profondo, scrutò per un attimo il cielo, poi schermando con una mano le gocce che colpivano il viso, si introdusse nel passello correndo. Le merlature gli arrivavano alte oltre la testa. Sulla destra, il parapetto lasciava spazio alla vista sull'andamento della tettoia.

I gradoni erano più scivolosi di quanto aveva immaginato. Li seguì con cautela.

Perse appiglio, sdrucciolò sulla pietra levigata. Si aggrappò a un puntello e si tirò su.

Raggiunse l'entrata della torre. La scala a chiocciola scendeva inghiottita dal buio.

Ala non frequentata del castello, non v'erano torce con le quali farsi luce.

Cercò a tentoni ogni gradino, finché non arrivò all'ultimo. Qualche saetta, illuminando la notte, riluceva oltre le feritoie e gli donava un briciolo di luce. Nello sfrenato rincorrersi dei fulmini, ancora rivide il mantello ondeggiare e prendere un corridoio di lato.

«Fermatevi!» Gridò Jacopo col fiato corto.

Le sue parole echeggiarono nel corridoio.

Seguì il percorso obbligato.

Una stanza si aprì sulla sua sinistra. Impossibile vedere cosa vi fosse all'interno. Attese un lampo. Rimase inorecchito per captare qualsiasi segnale di presenza. Che arrivò, ma più avanti, non lì.

Continuò a camminare, voltò a destra, discese ampi gradoni ancora, correggendo la traiettoria mandando avanti le mani, che tastavano e saggiavano ogni pietra, ogni curvatura delle pareti.

Un'altra stanza che non riconobbe.

Uno scalpiccio là, in fondo. Rumore sinistro, inafferrabile, difficile da identificare.

Lo seguì, continuando a gridare la resa.

Oltrepassò un arco, trovandosi nuovamente avvolto dal turbine di vento e pioggia. Parò le braccia davanti al viso.

Lo scorse, correre via, fuggire da lui, quello strano individuo che non obbediva, non si fermava.

Le colonne del loggiato lo abbracciavano da entrambi i lati.

Corse più forte. Quasi l'aveva raggiunto.

Gridò un'ultima volta, prima di sentire il vuoto, sotto ai piedi.

Cadde.

E il dolore fu talmente atroce che i sensi l'abbandonarono.

***

Il panno bagnato gli provocò un fremito, quando glielo posero sulla fronte accaldata. Sentiva gli abiti appiccicarsi al corpo, avvolgendolo in un abbraccio stretto e scomodo. Laria attorno a lui era pesante, rischiarata dal lume ambrato di una candela.

Aprì gli occhi, quel tanti che la febbre glielo consentiva.

Marianna e Goffredo si trovavano entrambi al suo capezzale. La donna, seduta sulla sedia accanto al letto, rammendava un paio di pantaloni che parevano proprio essere i suoi; mentre il marito svuotava e riempiva la bacinella con dell'acqua fresca di fonte.

Jacopo tentò di tirarsi sui gomiti, ma un profondo dolore alla gamba destra lo costrinse ad abbandonare l'intento, facendogli cacciare un urlo tra i denti.

«Cielo! Si è svegliato, finalmente.» Proruppe Marianna, sinceramente affranta. «Come vi sentite, Jacopo?»

Il giovane faticò non poco a parlare ma riuscì con un filo di voce a chieder notizie su quanto gli era capitato.

«Ho sempre detto che quella donna non avrebbe mai portato altro che guai, in questo castello!» Tuonò Goffredo. «E avevo ragione! Ma mai che mi venga accreditato giudizio!»

«Non parlare così, Goffredo. Non della marchesa Cristina. Dopo tutto, è una di famiglia.»

«Giusto perché quel buono a nulla di Ippolito ha voluto prenderla in moglie! E guarda come ha ridotto il nostro castello! Un ricettacolo di trappole e trabocchetti!»

«Non ti dimenticare che stai parlando della madre del Marchese. Un po' di rispetto, sant'Iddio!» Si rivolse a lui, agguerrita, Marianna.

Entrambi sapevano la motivazione per la quale la marchesa Cristina Pallavicini avesse disseminato insidie in tutto il castello, e non era mistero l'identità degli sfortunati destinatari delle sue attenzioni.

Ma una marchesa che si rispettasse, il cui figlio avrebbe dovuto tenere le sorti della marca obertenga, non poteva viaggiare sulla bocca dei comuni paesani per le discutibili compagnie che andava eleggendosi, così aveva ben pensato di porre al silenzio i malcapitati che rientravano, volenti o nolenti, sotto le sue proprie attenzioni.

Nonostante fosse già trascorso del tempo dall'ultima volta che l'avevano ospitata nel castello, ancora non avevano avuto la libertà di potersi disfare di quegli orrendi marchingegni.

«Sento dolore.» Sussurrò Jacopo.

«Cercate di stare calmo. La ferita è profonda ma non avete perso troppo sangue.»

«Poteva andare molto peggio.» Continuò, ostinato, Goffredo. «Se la lama, invece della gamba, fosse penetrata altrove poteva esser morto! È l'ora di dismettere quei tranelli mortali: non ci sono più poveracci da farci finire dentro per la lussuria della Pallavicini!»

Marianna gli gettò un'occhiataccia. L'ultima cosa che avrebbe voluto era creare un clima di terrore in cui Branciforte avrebbe dovuto vivere i giorni di degenza. Ma il marito, in fondo, aveva ragione. Molte volte avevano sottoposto il problema all'attenzione del marchese, ma questi ancora non si era deciso a liberare la fortezza dagli abomini della madre scriteriata.

«Non temete, il medico sta arrivando da Massa. Abbiamo inviato subito un'ambasceria, non appena siamo riusciti tirarvi fuori dalla botola. La ferita, però, sembra avere un buon colore.»

La donna deterse la gamba con acqua fresca e qualche goccia di limone, poi spalmò delicatamente la poltiglia d'iperico sulla lesione. Era ovvio, a questo punto, che non avrebbe potuto allontanarsi tanto presto dal castello.

«Dov'è andata?»

«Chi?» Marianna finse di non afferrare l'allusione.

«Andiamo, lo sapete meglio di me di chi sto parlando.»

Marianna annuì. Trasse un profondo sospiro e, per la prima volta, disse il vero: «State tranquillo, la rivedrete.»

~ ANGOLO AUTRICE~

Dopo giorni di silenzio, ecco il nuovo capitolo.
Le ombre attorno al giovane Jacopo stanno lentamente prendendo forma. La curiosità rende l'uomo audace, ma può anche gettare nel più vivo terrore.
Preludio a qualcosa di più grande, questo capitolo getta le basi del tutto.
Le scelte, si sa, sono quelle che rendono la vita incredibilmente bella.

Divertitevi

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