Capitolo 5: Prima regola: eliminare le scarpe rosa

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La confusione mi prese dopo poco.
Tutti mi parlavano, ma io ero in grado di percepire solo un fastidioso brusio.

《Vede signora, qui c'è molto da fare. Come avrà visto all'esterno, molti sono i lavori di restauro.
E poi ci sarebbe da mettere tutto a norma. Non so lei quanto se ne intende di fotovoltaico, ma un posto così grande avrebbe bisogno proprio di energia alternativa per risparmiare qualcosa. Mi spiega perché non è venuto il signor Fausti personalmente?》 l'ultima frase la sottolineò quasi scocciato.

Giusto.

Me lo stavo giusto chiedendo anche io.

Seguivo quel gruppetto di uomini sulla cinquantina, vestiti chi da manovale e chi da signore benestante, così fuori luogo per un cantiere tanto malmesso.
L'unico che parlò con me per i primi venti minuti buoni, mi sembrò il più vecchio ed il più esperto.

Era l'impresario edile con cui aveva parlato il Fausti.
Il Fausti però non aveva detto alla squadra che non sarebbe venuto di persona per il sopraluogo. Aveva sottoscritto l'appuntamento, aveva detto che si sarebbe stipulato il contratto, messo nero su bianco le spese da affrontare, il contratto...

Ma aveva omesso di dire che mandava al posto suo la contabile del ristorante, senza esperienza nel campo dell'edilizia e dei restauri.
Un vero disastro.

Entrammo nell'hotel tutti insieme dopo poco.
La hall era davvero spaziosa come mi aveva detto il signor Fausti. Si poteva intravedere un giardino sul retro. Era forse ancora più grande di come l'avessi idealizzata. Lì, mi aveva detto il signor Fausti, ci sarebbe proprio stato bene un campo da golf.
Mi sembrava di avere a che fare con Marco e i suoi grandi progetti a fondo perduto.

Percorrendo le grandi stanze, che una volta erano le sale da pranzo, ci imbattemmo in una scala maestosa. Le ringhiere in ottone erano macchiate dal tempo e dalla ruggine, la polvere la faceva da padrona di casa.

Ogni tanto mi capitava di osservare quell'unico giovane in mezzo alla squadra. Aveva poco più di trent'anni, i capelli mossi e chiari. Aveva gli occhi di un tale verde smeraldo che a tratti sembravano quasi gialli. Era magro, per niente muscoloso, ma tonico. Un tipo, però piuttosto affascinante.

Da quando ci avevano presentati, non ci eravamo scambiati una parola. Era il figlio dell'impresario, faceva il geometra.
"Non aveva voluto imparare a costruire case sporcandosi le mani" , aveva detto il padre.
Aveva preferito imparare a costruirle sulle carta. Era davvero un bel uomo, non si poteva negarlo. Tanto bello, quanto scontroso.

Le uniche poche parole che scambiò con il padre erano accuse su quanto fosse leggero nello spiegare a me i costi dei lavori, senza mai omettere lo sdegno provato nei confronti dalla presenza di una donna al cantiere, che di edilizia non ne sapeva nulla.

Era ovvio, scontato, che l'impresario voleva accaparrarsi i soldi del signor Fausti.
Avrebbe proceduto prima nel designare una cifra, poi "Ops, non ci eravamo accorti che questo non è a norma, diecimila euro.... E caspita, qui c'è più del danno stimato... Altri ventimila euro."

Alla fine della mattinata mi girava davvero la testa.
Il signor Berghi, l'impresario, mi aveva letteralmente ubriacata a forza di parlare. Avevamo visionato tutto lo stabile o quasi, avevamo parlato di cosa si poteva salvare e cosa no. Ogni tanto il figlio sbuffava alle mie spalle.

Fastidioso.

Alla termine di quel tour devastante dell'hotel, Berghi mi portò nel sotterraneo per mostrarmi quella che sarebbe stata la famosa area relax che occupava tutto il seminterrato dell'hotel. Era davvero immensa. Al centro, una piscina vuota e ricoperta dal muschio di anni padroneggiava l'area. Era una delle piscine private più grandi che avessi mai visto. Restai affascinata solo guardando ciò che ne restava, anche se c'era davvero da rifarla da zero.

Proprio mentre Berghi mi spiegava che Fausti aveva un'idea irrisoria in merito alle spese da affrontare per quel posto, mi ritrovai con il culo a terra.
Camminando non mi resi conto dei cavi scoperti su quello che una volta era un pavimento e finii per inciampare, spezzare un tacco e cadere a gambe all'aria.

Una figura barbina. Una certa figuraccia senza preavviso.

L'uomo di fianco a Berghi rise con le lacrime agli occhi. Era un ciccione sudato con una camicia troppo stretta per quella pancia etilica che si trovava.
Solo dopo mi resi conto che si trattava del direttore della banca che ci avrebbe permesso il prestito per questo cazzo di posto.
Feci per alzarmi in piedi, ma con una sola scarpa buona proseguire il tour si faceva sempre più difficile.

Solo dopo aver imprecato sotto voce, il trentenne imbronciato fu l'unico ad avvicinarsi per aiutarmi a rimettermi in piedi.
Edoardo Berghi.
Non mi sorrise, non mi disse nulla, non rise nemmeno come gli altri. Si limitò a mostrarmi la mano ed aiutarmi a stare in piedi.

Mi ricordai solo allora che in macchina avevo un paio di tennis dell'era del paleolitico, lasciate lì da quella volta che uscimmo a cena io e Marco, in una sera d'estate che preannunciava pioggia.

Quella sera il temporale non si abbattè su di noi, riuscii a tenere le mie ciabattine infradito. Ma mi scordai le scarpe in macchina.
Mesi e mesi fa. Quando forse fingevo meglio di essere felice.

Edoardo mi teneva in piedi ogni volta che la scarpa con il tacco rotto minacciava di farmi cadere con il sedere ancora a terra.
Mi stava accanto, mi aiutava a superare tutti gli ostacoli sul pavimento. Tuttavia, non si prendeva confidenza. Solo di tanto in tanto mi accorgevo che mi guardava, ma appena lo guardavo a mia volta, distoglieva lo sguardo.
Quando ci ritrovammo tutti nella hall, fuori pioveva a dirotto. Il temporale aveva spezzato dei rami, gettato foglie ovunque e imbrattato la mia auto.

Perfetto. L'unica volta che l'avevo lavata.

Mi diressi di corsa alla mia auto ed estrassi le tennis dal portabagagli.

Rosa. Diamine. Sono le tennis rosa. Ho addosso un completo da signora per bene pronta ad affrontare un pranzo di lavoro e discutere di affari e ci vado con delle scarpe da ginnastica rosa.

Se il progetto andrà a rotoli, il signor Fausti mi ucciderà e darò la colpa alle scarpe.

Berghi mi invitò a salire sulla sua auto. Nel posto del passeggero sedeva silenzioso il figlio intento a scarabocchiare su un foglio i lavori di sua competenza. Dietro io, bagnata fradicia, con i capelli scompigliati in faccia, il sedere sporco di polvere e le mie Nike rosa.
Tutta la situazione era già abbastanza vergognosa, quando il vecchio Berghi iniziò a parlare.

《Allora... Mary. È il suo nome di battesimo? Come è finita a lavorare per quella testa calda di Fausti?》

Ogni domanda mi faceva sentire più a disagio di quanto già non fossi. Mi sembrò di essere alle prese con un interrogatorio.

《Il mio nome di battesimo è Marie Anne. Mia madre era fissata con i polizieschi americani quando sono nata.
Così mi ha dato un nome straniero. Per quanto riguarda il signor Fausti... Mi ha assunta che ancora mi stavo laureando. E alla fine sono rimasta lì. 》

Un attimo di silenzio imbarazzante e Berghi ricominciò con le domande. Edoardo pareva non stesse affatto ascoltando.
Del tutto disinteressato.

《Bene si, dunque... È laureata in cosa? Quale laurea sta bene in un ristorante?
Vedo che ha una fede signora Marie Anne... È sposata! Così giovane!》

Ci fu un attimo di imbarazzo generale.
Questa persona si stava dimostrando fin troppo curiosa per i miei gusti.

Il padre di Edoardo mi guardava dallo specchietto, in attesa, mentre io avrei voluto sprofondare. Domande già così personali al primo giorno.

Cominciamo bene.
Decisi di rispondere con entusiasmo. Niente doveva mettermi in difficoltà.

《Sì, signor Berghi. Sono laureata in marketing. Sono uscita con il voto massimo, ho studiato molto. Il signor Fausti è come una seconda famiglia per me. Facevo la cameriera da lui, mi ha aiutata a finanziare i miei studi. Ora dirigo il suo staff al ristorante e tengo la contabilità. Sono fortunata per quello che ho. E sì, sono felicemente sposata da quattro anni e ho un bambino, Filippo. È la mia vita》

Il Berghi mi fissò attonito per un attimo, senza replicare. Edoardo aveva finalmente alzato la testa e stava ascoltando la conversazione, che finalmente era finita. Eravamo nel parcheggio della pizzeria a due chilometri dal vecchio hotel.

Senza troppi preamboli scesi dall'auto, mi sistemai i capelli e aspettai il resto della squadra.
La pizzeria era una vera bettola di paese, ma Berghi giurò che si mangiava benissimo. Non avevo nemmeno fame.
Mandai un SMS a mia madre e a Marika per sapere come andava a casa, Filippo aveva giocato con Toby tutta la mattina.

Quel cane era una benedizione, meno male che avevamo scelto l'adozione per lui.

Ci accomodammo al tavolo.
Poco prima di sedermi, Edoardo mi si affiancò.

《Ti chiedo scusa per mio padre. Delle volte sa essere arrogante e poco signore nel parlare con la gente. Avrei voluto farlo tacere in auto, ma è scontroso quando mi intrometto e non volevo ti sentissi più a disagio di quanto già non fossi. Spero che non ti sia offesa. 》

Bellissimo e intrigante... No..no..basta!

《Non ti preoccupare. Sono abituata con Fausti! 》

Furono le uniche parole che fui in grado di dire. Mentre mi parlava, guardavo i suoi occhi. Erano penetranti. Non riuscivo nemmeno a capire perfettamente cosa stesse dicendo. Aveva su di me un fascino impetuoso, mi dovetti sforzare per non sentirmi imbarazzata per come mi stava guardando.

Ordinammo la pizza e finimmo per parlare di affari. Dopo circa un paio d'ore a discutere di preventivi, tempi e soldi, ero davvero esausta. Ormai era pomeriggio inoltrato, fuori non pioveva più. Prendemmo il caffè e ci dirigemmo fuori dal locale per una sigaretta.

Non avevo mai perso il vizio. Tenevo un pacchetto di sigarette nella borsa per le emergenze. Quando Marco e Filippo uscivano, mi rinchiudevo in balcone e fumavo la mia sigaretta consolatoria. Mi aiutava a rilassarmi.

Accesi la mia. Era un po' che non fumavo, forse un paio di giorni. Mi girò un po' la testa. Anche Edoardo fumava. Aveva quel modo di tenere la sigaretta in mano che era affascinante. Aspirava piano il fumo e lo lasciava uscire lentamente dalla bocca.
Dovevo subito smettere di fissarlo o se ne sarebbe accorto.

Mi riportarono dalla mia auto all'Hotel. Era ricoperta di foglie e terriccio, una vera schifezza. Salutai tutti e strinsi la mano di Berghi, il quale mi stava esortando a spiegare il progetto a Fausti e al più presto comunicare la sua decisione.

Una cosa era certa. Se ci fosse mai stato un altro incontro, sarebbe venuto lui personalmente.

Anche perché si stava parlando di oltre mezzo milione di euro solo per i restauri. E i soldi non erano miei.

La scelta dunque non poteva essere mia.
Mi misi in auto. Il motore si accese con fatica, colpa dell'anzianità del mio macinino. Edoardo, a bordo della sua auto sportiva mi si affiancò.

《È stato un piacere conoscerti, Mary. Spero che il tuo capo valuti bene tutto questo casino e ci pensi su non due, ma anche trecento volte. Sei una dipendente affidabile e professionale, spero ci rincontreremo. In caso, ti lascio il nostro biglietto da visita se hai dubbi. Fausti ha il nostro numero, ma è giusto che lo abbia anche tu. 》

In un attimo lo vidi sparire dietro il vecchio cancello dell'hotel. Stringevo in mano il suo biglietto da visita, con il cellulare e l'indirizzo del suo studio.

Ci rivedremo...

Non so come e quando, ma sono sicura che ci incontreremo di nuovo.

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