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Verso l'ora di cena qualcuno aveva bussato alla mia porta, ma io non avevo aperto. Fortunatamente avevano deciso di lasciarmi in pace e non insistere. Sarei morta di fame, meglio che torturata da loro.

Quella notte non dormii. La consapevolezza di avere quelle malvagie persone sotto lo stesso tetto mi metteva in ansia e a ogni più piccolo rumore balzavo sul letto, ritrovandomi con il cuore a mille all'improvviso. Sfinita, dormicchiai forse per qualche ora durante l'alba, e la mattina dopo sentii di nuovo bussare. Questa volta, Ace entrò senza che gli dessi il permesso. Sorpresa, ma anche spaventata, mi allontanai da lui il più possibile.

«Lucrezia...» provò a iniziare.

«Se vuoi farmi del male, per favore uccidimi in fretta» supplicai impaurita. Ace non aveva mai mostrato di volermi ferire fisicamente, ma lo conoscevo da poco, quindi non potevo essere certa delle sue buone intenzioni, dal momento che era un changer. Pensare che quella leggenda fosse vera mi risultava ancora difficile, ma avevo visto perfettamente con i miei stessi occhi qualcosa che una persona normale non sarebbe mai stata in grado di fare.

«Se avessi voluto ucciderti l'avrei fatto prima, non credi?»

«Mi stai tenendo in vita per farmi soffrire di più, quindi?» urlai. Non lo vedevo più come una sicurezza, non più come il protettore per il quale l'avevo scambiato in precedenza. Gli era caduta la maschera e ora finalmente potevo guardarlo in faccia per quello che era.

«Certo che no. Non voglio farti del male, tu sei come me. Ecco perché ci capisci perfettamente, nonostante questa non sia la tua lingua madre. Non te lo sei mai chiesto, Lucrezia?»

«Non è vero! Io non sarò mai come voi!» precisai a pieni polmoni, rifiutando qualsiasi rivelazione mi stesse fornendo. Una parte del mio cervello, però, doveva ammettere che aveva ragione. Tutti quegli anni passati a domandarmi il perché delle cose... adesso avrei trovato un'unica spiegazione a tutto. Una spiegazione che non mi piaceva per niente.

«D'accordo. Una cosa alla volta. Non voglio farti del male, altrimenti lo avrei fatto ieri, o prima. Che senso ha rimandare?»

«Non lo so... non vi conosco così bene da sapere il vostro movente.» Smisi di urlare, ma mantenni comunque uno sguardo minaccioso.

«Ragiona! Non siamo come tu credi.» Scossi la testa. Non volevo saperne di ascoltarlo.

«Lui ha provato a uccidermi» gli feci notare, riferendomi a Dante.

«Ma non l'ha fatto.»

«Non l'ha fatto solo perché tu mi hai salvata» dissi in automatico.

«Bingo! Allora devi per forza fidarti di me» sorrise vittorioso.

Rimasi in silenzio, non trovando le parole per ribattere. Mi aveva incastrata. Pensandoci, non aveva tutti i torti: mi aveva salvata, quindi forse lui era un pochino diverso. Non mi fidavo comunque, faceva sempre parte di quella comunità malvagia, però non sarei morta per mano sua, dopotutto.

«Allora, mangerai stamattina?»

Scossi la testa.

«Vieni con me, ti accompagno nella tua nuova stanza. Dopo ti porterò qualcosa da mettere sotto i denti.»

«Non voglio venire. Non voglio... incontrare nessuno. Credevo fosse solo una leggenda, io...» Non seppi come esprimere la mia incredulità.

«Non devi avere paura di noi, Lucrezia. Non ci conosci affatto, non puoi giudicarci dalle dicerie che hai sentito, raccontate da chi non sa nulla. Dacci una possibilità. Dalla al piccolo Gabriel, almeno.» Storsi il naso in una smorfia. Non era giusto da parte sua usare il ragazzino contro di me. Gabriel era gentile e premuroso... possibile che fosse un changer anche lui?

«Avanti, seguimi. Starai meglio» insistette.

L'idea di muovermi non mi andava a genio, ma la nuova stanza era troppo interessante per potermela perdere. Dovevo sapere se aveva la finestra. Una via di fuga era più importante delle precauzioni che stavo prendendo contro quell'uomo.

Iniziai a seguirlo prendendo il mio asciugamano – l'unica cosa che avevo – e rendendomi conto che avrei dovuto farmi una doccia. Riconobbi l'ala est e i dormitori. Era lì che sarei stata, come tutti gli altri. Il pensiero di dover passare la prossima notte attorniata da camere di pericolosi changers mi diede il voltastomaco.

Ace aprì la porta di una delle tante stanze, incitandomi a entrare. La prima cosa che mi colpì fu la profonda differenza con la vecchia camera, molto più impersonale e piccola di questa. Mentre il mio occhio veniva catturato dai freschi lillà poggiati sulla scrivania, feci un passo, il quale venne ovattato in un soffice rumore dalla moquette viola che ricopriva l'intero pavimento e si intonava al rosa chiaro dei muri. Quei colori femminili regnavano ovunque, a partire dalla mobilia fino ad arrivare alle lenzuola. Vi erano persino stelline bianche che ricoprivano il soffitto, luminose nella penombra che riempiva la stanza prima che Ace accendesse la luce.

«Devi dire grazie a Caroline per questa. Te l'ha ceduta volentieri» disse fiero prima di congedarsi e sparire dietro la porta.

La stanza mi aveva catturata così tanto che mi ero dimenticata di controllare l'eventuale presenza di una finestra. Con mia grande soddisfazione la fenditura che cercavo stava dritto per dritto davanti a me, chiusa. Corsi a esaminarla e la spalancai, già con il pensiero di calarmi dall'altra parte, in qualche modo. Rimasi infinitamente delusa quando notai che c'erano delle grate che non avrei potuto sorpassare, né aprire in alcun modo. Avevano pensato a tutto, non volevano certo farmi scappare. In un impeto di disperazione, provai a piegarle con tutte le mie forze, ma il ferro massiccio non ne voleva sapere di farsi modellare, e tutto ciò che ottenni furono due evidenti segni rossi sui palmi.

I miei occhi si ritrovarono a fissare nel vuoto prima che mi rendessi conto di poter guardare cosa c'era fuori. Mi feci subito attenta e iniziai a studiare il paesaggio verdeggiante che vi era al di là della mia finestra. Non si vedeva molto, ma rimasi sorpresa di non scorgere altro che un enorme prato selvatico macchiato qua e là da piccoli boschetti e colline in lontananza. L'aria era fresca e pulita, e sapeva di erba e fiori. Non si sentivano rumori se non il cinguettio degli uccelli accompagnato dal fruscio del vento.

Restai a fissare il fazzoletto di verde fuori dalla mia stanza, lì dove il mondo continuava ad andare avanti anche senza di me. Dopo quelle che sembravano ore mi stancai e riprovai con la porta. Con mia grande sorpresa, la maniglia si abbassò, aprendo uno spiraglio.

I miei occhi incontrarono lo sguardo azzurrino di Elijah. Era sicuramente lì fuori a fare da guardia. Lo sentii pronunciare piano il mio nome e lo vidi camminare verso di me. Non avrei permesso a un altro changer di avvicinarsi.

Sbattei la porta alle mie spalle e la tenni chiusa con il corpo per sicurezza, ma per fortuna il biondo non provò a entrare. Mi sedetti per terra, sempre poggiata alla porta, e rimasi lì a pensare. Non c'era nessuna apparente via di fuga, quindi avrei dovuto trovare un altro modo. Forse qualcuno aveva la finestra accessibile nella propria camera, ma, fermo restando che sarei riuscita a intrufolarmi, avrei comunque dovuto fare i conti con l'altezza.

Delusa, mi buttai sul letto fino al ritorno di Ace, che mi portò la colazione. Per fortuna non insistette per parlarmi o mangiare insieme, e non disse nulla sul fatto che avevo provato ad andarmene dalla porta. Sicuramente Elijah gliel'aveva riferito, ma forse non lo riteneva abbastanza importante da farmi la ramanzina. Dopo avermi accompagnata in bagno e aspettato pazientemente che mi lavassi in fretta, se ne andò presto.

A pranzo per poco non mi trascinò via con la forza, ma alla fine riuscii a convincerlo e rimasi in camera, così pranzo e cena me lì portò lui, con la condizione che il giorno dopo sarei uscita. Gli avevo detto di sì e avevamo fatto questo patto, ma non avevo nessuna intenzione di incontrare altri come lui e Dante. Purtroppo temetti di doverlo rispettare per forza.

Andai a dormire molto presto; ero stanchissima e la notte scorsa avevo dormito sì e no due ore. Il letto nuovo era molto più comodo di quello duro e striminzito della prima camera che mi era stata assegnata, così crollai nel sonno nel giro di cinque minuti.

Venni svegliata dopo qualche ora dal rumore della porta che si apriva e chiudeva piano. Lì dentro avevo imparato a rimanere all'erta anche mentre dormivo, perciò me ne accorsi subito, nonostante il rumore fosse basso e quasi impercettibile. Mi alzai dal letto con il cuore che batteva forte e l'impressione che ci fosse qualcuno in camera mia. Non vedevo niente, ma era come se potessi percepire una presenza.

«Chi c'è?» chiesi con una voce decisa che mi sorprese. Tutto il mio corpo tremava, ma la mia voce era rimasta stranamente ferma. Rimasi in ascolto per qualche secondo, cercando di captare ogni più piccolo rumore.

Nessuno rispose, c'era un silenzio totale che faceva quasi male alle orecchie. L'unico suono che si sentiva era il rumore della pioggia proveniente da fuori, udibile solamente grazie al silenzio della notte.

Quando iniziai a pensare di essermi immaginata tutto, qualcuno mi mise la mano sulla bocca, prendendomi alla sprovvista. Urlai, ma il suono venne soffocato dal grande palmo che mi copriva per metà il viso, non lasciandomi quasi respirare. Chiunque fosse, era molto forte, decisamente un uomo, a giudicare dalle dimensioni della sua mano. In poco tempo mi afferrò le braccia senza che potessi fare nulla per sfuggire alla sua presa, torcendole in una posizione dolorosa. Mi ritrovai immediatamente bloccata per le spalle in una morsa d'acciaio che rischiava di spezzarmi le ossa. Provai a divincolarmi, ma la sua stretta era troppo forte.

Rimasi immobile nella paura, notando subito un'altra persona. Quanti erano? La figura che avevo davanti, dopo essersi assicurata che fossi immobile, accese la torcia. Con la luce puntata in faccia non riuscii a vedere bene, ma potei distinguere un uomo con lunghi capelli neri e lisci. Aveva muscoli evidenti, ma non tanto quanto Dante. La sua espressione sembrava tranquilla e soddisfatta, ma nei suoi occhi si poteva leggere anche dell'odio incondizionato verso di me.

L'uomo si mosse e nel cono di luce entrò quella che sembrava un'arma. Osservandola bene capii che doveva essere una grande mazza chiodata, puntata contro di me per uccidermi. Spalancai gli occhi e, urlando ancora d'istinto, tornai ad agitarmi più forte di prima, senza comunque ottenere risultati. La persona che mi teneva era davvero forte e io ero solo una ragazza incastrata tra due maghi oscuri che volevano divertirsi a farmi del male. Non ce l'avrei mai fatta. Anche se avessi potuto chiedere aiuto, nessuno sarebbe venuto in mio soccorso. Le lacrime mi salirono agli occhi, amare come sempre, ma tentai di ricacciarle indietro e prendere un respiro tra la mano che mi tappava le vie respiratorie. Non stava cercando di soffocarmi, lui mirava a farmi soffrire sotto l'acciaio di quell'arma, ma lo stava facendo involontariamente.

Il tizio che avevo davanti alzò la mazza, pronto a colpirmi. I suoi muscoli si gonfiarono sotto il peso, rivelandomi quanto fosse pesante e letale. Strinsi i denti, preparandomi al colpo, ma quando affondò fu molto più doloroso di quanto avessi presupposto.

Urlai più che potei, ma la mano dell'uomo che mi teneva non permetteva ai suoni di uscire. La mazza mi aveva colpita alla spalla, lacerando i vestiti e la pelle. Il sangue non tardò a fuoriuscire, riscaldando quella zona già bollente per via del colpo che aveva rischiato di spaccare un osso. Non avevo mai provato una sensazione come quella: dolore di squarcio, di pelle e tessuti che si rompono, un dolore che mi fece mancare il fiato, e per un attimo anche la vista e l'udito. La persona davanti a me non aveva intenzione di uccidermi, bensì di farmi soffrire. Era un mostro, proprio come tutti gli altri. Non riuscii a trattenere le lacrime che sgorgarono fuori dai miei occhi improvvisamente, un po' per il male alla spalla, un po' per la paura e il disgusto verso quella gente. Mi vergognavo di non stare lì a soffrire in silenzio come avrebbe fatto una persona forte e coraggiosa, ma in quel momento ero tutto fuorché forte.

L'uomo davanti a me alzò la mazza per preparare un altro colpo e il cuore accelerò ancora di più il battito. Questa volta sapevo cosa mi aspettava, ed ero sicura che non avrei resistito a un altro affondo. Feci un ultimo debole tentativo di salvarmi, completamente inutile. Non volevo rassegnarmi, ma non potevo fare nulla. Abbassai la testa e attesi di nuovo quel dolore lacerante, l'unico rumore che riuscivo a sentire era il cuore che mi batteva forte nel petto.

Aspettai quelli che sembravano interminabili attimi, l'aria che sembrava mancarmi nei polmoni, ma il colpo non arrivò. Improvvisamente sentii il rumore della porta che si apriva di nuovo con forza. Un secondo dopo, l'uomo che mi teneva mi lasciò andare malamente, e io potei finalmente guardarlo in faccia.

Non lo avevo mai visto prima. Era basso e tozzo, con una barba folta e capelli neri e ricci. La sua espressione stava variando velocemente dalla sicurezza alla preoccupazione e, subito dopo, alla paura. Chi era entrato? Mi girai verso il mio assalitore, ma nel frattempo la torcia era caduta a terra, spegnendosi. Non riuscivo a vedere nulla, ma sentii il rumore di qualcuno che urtava qualcosa e dei bassi grugniti di due persone che stavano lottando. Mi giunse alle orecchie rumore di ossa rotte, accompagnato da un grido straziante più forte degli altri che mi fece rabbrividire. Per un attimo temetti che il mio salvatore si fosse fatto male, poi rammentai che nessuno mi avrebbe salvata, lì dentro.

«Marius. Se non vuoi finire anche tu così, ti conviene andartene subito e trascinare quello schifo del tuo amico via di qui.»

Riconobbi subito quella voce. Avrei potuto distinguerla tra mille: era il tono profondo e vellutato di Dante. Dante, il ragazzo che voleva uccidermi... perché ora mi aveva salvata?

L'uomo riccioluto non se lo fece ripetere due volte. Sollevò il corpo svenuto del compagno e sparì dietro la porta, richiudendosela alle spalle. La sua paura verso Dante era evidente. Per una volta non ero io che dovevo temerlo. Forse.

Troppo scossa anche solo per dire qualcosa, rimasi ferma dov'ero. La spalla destra continuava a pulsare dolorosamente, con il sangue che non la smetteva di uscire, ma io non riuscivo a muovermi. Ero sconvolta e tremavo come una foglia per ciò che era appena avvenuto.

Dante accese la luce con un click e corse a osservare la mia ferita. Tentò di scostarmi la camicia dalla spalla ma mi ritrassi fissandolo spaventata. Non sapevo nemmeno io perché, ma non volevo che mi toccasse. Mi aveva appena salvata, avrei dovuto fidarmi di lui, ma ero talmente sconvolta che non riuscii a farmi avvicinare, nemmeno per controllare la mia ferita. Ne avevo viste troppe.

«Tranquilla. È tutto ok ora. Fammi vedere, la tua ferita non guarirà da sola. Cercherò di non farti male, promesso.»

Quasi non riconobbi la sua voce, che si rivolgeva e me lentamente e dolcemente per non farmi spaventare. Era la prima volta che mi parlava gentilmente, e anche la prima che sembrava non voler attentare alla mia vita. Si avvicinò cauto, forse perché aveva capito che ero parecchio scossa, e io mi lasciai toccare, più per il fatto che non riuscivo a muovermi che per il bisogno di farmi controllare.

«Perché mi hai salvata?» riuscii a chiedergli finalmente. La voce mi tremava un po', ma le mie capacità di controllarla erano maggiori di quanto credessi.

Concentrato com'era sulla ferita ci mise un attimo a elaborare una risposta. Sembrava non saperlo nemmeno lui.

«Forse non sono un mostro come credi.» La sua voce non mi fece rabbrividire come al solito, ma il tono che aveva usato era freddo come sempre, in contrasto con la dolcezza che aveva messo poco prima nelle parole. Forse sentirsi chiamare "mostro" lo aveva ferito più di quanto pensassi. Evidentemente lui non si considerava tale.

Malgrado la situazione, mi sentii in imbarazzo quando sbottonò i primi due bottoni della camicia e delicatamente la spostò dalla spalla. Il suo tocco freddo mi provocò un brivido che quasi mi fece allontanare da lui nuovamente. Aveva la pelle gelata, tanto che mi chiesi se fosse fatto veramente di ghiaccio.

Sussultai, ma mi obbligai a restare dov'ero, poi spostai lo sguardo sulla mia spalla, pentendomi immediatamente di averlo fatto. Avevo davvero una brutta ferita, ero piena di sangue e la poca pelle rimasta intatta stava prendendo un colore violaceo. Dante imprecò mentre io spalancavo gli occhi, incredula. Aveva fatto male, sì, ma non mi aspettavo una ferita tanto grave. Non ne avevo nemmeno mai vista una così, solo nei film horror. Fortuna che aveva deciso di risparmiarmi il volto con il primo colpo.

Il ragazzo davanti a me tirò fuori un coltello dalla tasca interna della giacca, ma prima che potessi spaventarmi o allontanarmi, lo avvicinò alla sua mano sinistra e si incise il palmo. Lo guardai con aria stralunata mentre attendeva che la mano si riempisse di sangue, ma ero troppo sconvolta per fare domande. Non riuscii a capire cosa stesse facendo quando avvicinò la sua mano alla mia spalla, poggiandola sulla ferita mentre mi ordinava di non muovermi. Al contrario di quanto mi aspettassi, il suo tocco freddo fu un sollievo per la mia pelle e non fece male. Il dolore era improvvisamente svanito, lasciando spazio a una sensazione di calore e un leggero formicolio. Era così rilassante che non resistetti e abbassai le palpebre, riuscendo a calmarmi un po'.

Dopo circa un minuto, Dante tolse la sua mano dalla mia spalla e riaprii immediatamente gli occhi per osservarlo. Non potevo credere a quello che vidi. La spalla era ancora violacea e leggermente dolorante, ma la ferita profonda non c'era più. Era rimasta al suo posto una cicatrice rosea e quasi del tutto rimarginata. La mano di Dante era completamente guarita, invece.

«Com'è possibile?» esclamai incredula, facendo un passo indietro. Mi sfiorai la spalla con la paura di farmi male, ma sentii solo un leggero fastidio.

«È il nostro sangue. Ha poteri curativi e ci siamo guariti a vicenda. Il tuo sembra leggermente più potente, però» disse osservandosi la mano completamente guarita. «È la prima volta che mi succede. Nemmeno un segno» rifletté sorpreso, parlando più con sé stesso che con me, mentre si toccava il palmo con l'altra mano.

In effetti la mia spalla non sembrava guarita completamente quanto lo era invece la sua mano, ma aveva avuto anche una ferita più profonda, in confronto. Continuai a fissarlo a bocca aperta, finché non si guardò intorno e disse:

«Meglio se do una ripulita qui. Poi tornerò. Forse è meglio se stanotte rimango a sorvegliare. Domani dirò ad Ace quello che è successo e metteremo qualcuno di guardia alla porta anche di notte.»

Raccolse la mazza che era ancora a terra e asciugò le goccioline di sangue con la sua giacca, dopodiché uscì silenziosamente.

Mi guardai intorno con la testa che mi girava leggermente, tentando di assimilare quello che era appena successo: qualcuno aveva cercato di uccidermi in modo lento e doloroso; Dante era arrivato di soppiatto e li aveva mandati via, mettendo loro paura per salvarmi; dopo tutto questo si era tagliato la mano per farsi uscire il sangue e lo aveva messo sopra la mia ferita; il mio sangue aveva curato la sua mano e viceversa.

La spalla mi faceva male, quindi era impossibile che mi fossi immaginata o sognata tutto. Era incredibile! Una cosa del genere non poteva essere vera. In quel momento pensai di essere fuori di testa e star immaginando tutto quanto, come si vede in quei film in cui il protagonista è matto e quasi l'intera storia è un'invenzione della sua mente e in realtà non succede davvero.

Spaventata, mi chiesi come si potesse distinguere la realtà dalla malata immaginazione di una pazza, ma non seppi rispondermi. Non seppi nemmeno se preferire di essere malata di mente o che quella fosse la realtà.

Rimasi nella mia confusione per vari minuti, accorgendomi con orrore che forse era vero ciò che aveva detto Ace: io ero come loro. Il mio sangue guaritore ne era stata la prova. Non poteva essere, non potevo avere la loro stessa natura, io non ero malvagia!

Tentai di distrarmi e pensare ad altro, poiché quel pensiero faceva troppo male. Mi concentrai sugli assalitori e, più genericamente, su tutti quelli che mi volevano morta. Se ero come loro, perché volevano uccidermi? Forse non ci credevano come non volevo crederci neanche io, ma era ovvio ormai che ero una changer. Ma mia madre non lo era, avrei potuto giurarci. Mio padre non lo avevo mai conosciuto, ma comunque non sapevo se era una cosa che si ereditava geneticamente oppure no.

Dante interruppe i miei pensieri rientrando in camera, e io, accorgendomi di essere ancora in piedi al centro della stanza, mi misi a sedere sul letto. A mente un po' più lucida mi resi conto che era la prima volta che ci trovavamo da soli e pensai anche che era tutto ciò che mi aveva spaventata in quei giorni. Era strano che ora non facesse paura, anzi mi facesse sentire vagamente al sicuro. Percepivo solo tensione, non più terrore.

«Nonostante tutto, ti vedo meno sconvolta dell'ultima volta che ci siamo visti» osservò, sedendosi su una sedia alla sinistra del mio letto. Si riferiva al giorno precedente, quando avevo scoperto che era un changer.

«Può darsi» farfugliai.

«Dormi» ordinò dopo un breve momento di silenzio, ma non lo ascoltai. Dopo quello che era successo come poteva pensare che sarei riuscita a dormire?

«Mi hai salvata per dirlo ad Ace domani, così nessuno sospetterà di te quando mi ucciderai?» Alle mie parole Dante rise, ma non disse nulla. «Bel piano» osservai tristemente.

«Ti ho salvata perché... beh, perché ho pensato che fosse giusto farlo» disse con un'alzata di spalle.

Ovviamente non gli credetti, ma per il momento potevo stare tranquilla. Se quello che avevo pensato era vero, avrei dovuto per forza arrivare viva al giorno seguente.

«Il ragazzino ha chiesto di te, oggi. Non avresti dovuto farlo preoccupare. È solo un bambino.»

Gabriel. Lo avevo pensato durante quella giornata, ma non credevo che lui si sarebbe preoccupato per me così tanto. Ero spaventata da tutti i changers, ma di lui non sapevo cosa pensare. Era così gentile e diverso.

«Mi dispiace» confessai, intristita.

«Non devi dirlo a me. Dillo a lui, domani.»

Annuii. Gliel'avrei detto di sicuro. Non volevo che si preoccupasse per me.

«Qual è il tuo nome?» mi chiese all'improvviso. Mi sorprese che non sapeva il mio nome. Lo avevo detto solo a Gabriel, ma Ace lo conosceva. Forse tra di loro mi chiamavano in un altro modo.

«Lucrezia.» Decisi di non farmi chiamare con il mio soprannome, sarebbe stato troppo nostalgico e doloroso. D'ora in poi il mio nome sarebbe stato solamente Lucrezia.

«Lucrezia...» sussurrò il mio nome quasi a fatica. «Che nome lungo. Posso chiamarti Lucy?»

«Lucy?» Alzai gli occhi verso di lui. Non avevo mai pensato che qualcuno potesse chiamarmi così.

«Penso sia più comodo» dichiarò, alzando di nuovo le spalle.

«Nessuno mi ha mai chiamata così» dissi, ma dovevo ammettere che Lucy si abbinava alla loro lingua molto meglio del mio vero nome.

«Nessuno mi aveva mai chiamato mostro

Si girò verso di me e iniziò a fissarmi accusatore con quei penetranti occhi color del ghiaccio, mettendomi immediatamente a disagio. Immobile su quella sedia sembrava una statua, ma manteneva sempre un'aura pericolosa e letale. Eppure riuscii a sentire che dentro di sé ci era rimasto male per come lo avevo chiamato.

«Mi dispiace. Non lo penso davvero.» Era vero. Non lo pensavo, non dopo che mi aveva salvato la vita in quel modo quando, fino all'ultima volta che lo avevo visto, il suo scopo era quello di uccidermi. Non pensavo che fosse un mostro, nemmeno se mi avevano detto che erano malvagi e nemmeno se quel ragazzo aveva attentato alla mia vita. Dovevo ammettere, ormai, che era uno dei pochi che mi avrebbe salvata da una situazione come quella di prima.

Dante parve accettare le mie scuse e lasciò cadere la conversazione. Restammo un po' in silenzio, poi mi venne in mente di porgergli una domanda che non potevo fare ad Ace. Volevo chiedergli di Darrell. Lui lo conosceva di sicuro meglio di me e avrebbe potuto rispondermi. Volevo sapere che tipo fosse realmente e se avrei avuto una chance di rivederlo, in futuro. Nonostante mi avesse portata lì e abbandonata al mio destino senza apparente motivo, mi mancava e avevo bisogno di un viso conosciuto. Lo odiavo per tutto ciò, ma se rinchiudermi era stato solo un ordine che aveva dovuto eseguire, e in realtà teneva a me come mi aveva fatto capire, avrei potuto perdonarlo.

«Dante?» Fui un po' insicura a chiamarlo per nome. Era la prima volta che lo facevo e mi suonò strano. Forse sembrò strano anche a lui perché colsi un barlume di sorpresa nel suo sguardo.

«Cosa vuoi?» Non l'aveva detto con voce scocciata. Sembrava che avesse un modo di parlare schivo. O forse voleva solo apparirle in quel modo.

«Darrell...» iniziai, ma lui mi interruppe subito.

«Ascolta. Non so cosa lui ti abbia detto o ficcato in quella testolina. Sappi solo che qualsiasi cosa ti abbia messo in testa, non è vera. Darrell è... una persona a cui piace giocare. Giocare con tutto.»

No. Non poteva essere. Quello che mi aveva mostrato quando ci frequentavamo era interesse nei miei confronti e non poteva essere stata solo una falsità. Con me era stato dolce, gentile e tutto ciò di cui avevo sempre avuto bisogno, nonché ciò di cui avevo bisogno in quel momento.

Gli occhi bruciarono ancora una volta, perciò mi sdraiai facendo finta di voler dormire e mi girai dall'altro lato del letto. Dante spense la luce e rimase in silenzio, come se non ci fosse. Cercai di fare meno rumore possibile mentre le lacrime continuavano a scorrere implacabili.

Darrell... Quello che aveva detto Dante non lasciava spazio a dubbi, eppure mi sforzai di tenere accesa una fiammella di speranza nel mio cuore. Trovato questo piccolo equilibrio, mi rilassai un pochino e mi addormentai con il suono del respiro del ragazzo di ghiaccio come ninna nanna.

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