Capolavoro [New]

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Michael aprì gli occhi. Sentiva dolori diffusi in quasi tutte le parti del corpo, ma la testa era quella che mandava fitte più preoccupanti. Faticò ad adattarsi alla luce che penetrava nella stanza in cui si trovava. Era sdraiato a terra su un pavimento rugoso coperto da assi di legno grezzo, sentiva ancora freddo, ma niente di confrontabile alla notte precedente. I flash che gli balenavano in testa lo colpivano come le lame di un coltello. Si era alzato e l'aveva vista a terra. Un grosso frammento di vetro incastrato nella schiena; il sangue che scivolava via in una chiazza, rantolava, come un piccolo animale. Si era guardato attorno, perso: i frammenti di vetro erano sparsi ovunque. Era uscito in corridoio per non soffocare e allora aveva visto la porta aperta, spalancata sulla scala esterna di sicurezza: diversi fili penzolavano dal soffitto scoppiettando nell'oscurità. Non aveva mai fatto un'onda più grande in vista sua, nemmeno davanti alla dottoressa: la parte finale del piano era scivolata nell'oscurità; l'impianto elettrico sembrava non aver retto alla sua esplosione. Fissò ancora una volta Kathy a terra, la gola gli si chiuse: voleva solo respirare. Aveva fatto un passo e poi un secondo. Una figura era comparsa alla fine del corridoio, aveva riconosciuto subito i suoi capelli neri, ricci, il taglio dei suoi occhi orientali. Suzanne lo guardava terrorizzata, quasi potesse attaccare anche lei, da un momento all'altro; una belva senza controllo, questo era diventato! Aveva alzato la mano e  lei si era bloccata nel corridoio, buio. Allora aveva stretto la lingua tra i denti e aveva iniziato a correre. L'aria della notte gli scompigliava i capelli. A mala pena ricordava di aver preso quella scala verso l'alto, risalendo la parete di roccia, un gradino dopo l'altro, senza alcuna possibilità di fuggire davvero da ciò che aveva fatto.

Kathy o Suzanne non lo avevano mai guardato come faceva la maggior parte degli studenti della scuola: di fronte a loro non si sentiva più il fenomeno da baraccone da dover sopportare perché suo padre pagava tutto. Non era una piaga, un mostro, un incesto della natura. Se soltanto Kathy non avesse messo in mezzo Jacob o Tom! Se solo avesse accettato di scappare insieme! Quella camera maledetta era stata il suo rifugio, la sua speranza. Aveva tremato ogni volta che la giovane entrava da quella porta. Il suo sorriso riempiva la stanza intera: la sua energia, la sua allegria, la sua tenacia, la sua incapacità di arrendersi l'avevano convinto di potersi salvare anche lui. Aveva sentito qualcosa crescere dentro di lei, qualcosa che non avrebbe mai pensato di percepire ancora, con quella potenza. Passione, amore e compassione. Cum patior: soffrire insieme. Era questo che l'aveva travolto di più: la possibilità di dividere il suo patimento con un altro essere umano, che ci fosse qualcuno nell'universo capace di capirlo, di accettarlo, senza volerlo cambiare.

E ora? La storia si ripeteva sempre. Jacob era morto. Kathy era morta. Suzanne avrebbe sofferto per la sua partenza, ma anche se lei non avrebbe capito, la stava salvando... da sé stesso. Non era più la vittima inconsapevole, un ragazzino spaventato appena mutato. Lui era il carnefice, un ventitreenne che ancora non sapeva controllare i propri poteri; l'unico del gruppo a non esserci riuscito. Era un assassino. Incredibilmente in tutti quei giorni era stato così concentrato sui sentimenti di Kathy che non si era mai fermato a chiedersi cosa provasse lui. C'era molto che Kathy non aveva detto, ma non serviva: lui la sentiva come non aveva mai fatto con nessun altro essere al mondo. E ora era tutto silenzio: era solo, di nuovo, nella sua disperazione.

Forse l'aveva sempre amata, dal primo istante in cui l'aveva avvicinata nell'atrio della scuola. Aveva sbagliato a non dirle ciò che per lui era ovvio. Era talmente pentito di non aver osato avvicinare le sue labbra a quelle di Kathy nella camera 412. Forse qualcosa sarebbe cambiato, in lui, se avesse ammesso, prima di tutto con sé stesso, che sentiva una forza più grande crescergli dentro e che era spaventato. Una parte di lui aveva sempre temuto che lei scoprisse la verità, che lo temesse, che se ne andasse senza di lui. Dato che era riuscita a scovare quella stanza, poteva aprire qualsiasi porta della scuola: perché non l'aveva fatto? Ci pensò solo in quel momento. Scattò a sedere.

La piccola baita in legna in cui si era rifugiato era a circa tre ore di cammino dalla scuola sul versante opposto della vallata, nascosta nel bosco ed, in parte, ancora coperta di neve. Si guardò attorno: trovò una cassetta del pronto soccorso, si tolse gli abiti umidi tremando dal freddo, si sedette su una catasta di lagna. Non c'era molto, ma almeno poté pulirsi dal sangue rappreso e disinfettarsi qualche taglio. Era abituato a farsi male, succedeva spesso anche in istituto: non riusciva a trattenere la rabbia, l'angoscia e si sfogava contro i muri. Spesso esplodeva, come aveva fatto la sera precedente. Per un attimo rivide il volto soddisfatto della dottoressa davanti a lui. "Tu sei un capolavoro, non farti mai dire da nessuno il contrario": la sua voce rimbombò nella sua testa. Si asciugò le lacrime dal volto. Era abbastanza certo che i suoi genitori non la pensassero più allo stesso modo. Non gli importava: non era più un moccioso in cerca di approvazione. Mise sotto sopra mezza baita finché non trovò alcuni vestiti asciutti: erano decisamente grandi, ma meglio di nulla. Quando si tolse la tuta della scuola e quelle scarpe da ginnastica si sentì diverso. Infilò un doppio paio di calze, stivali; quindi, guardò il proprio volto segnato dai tagli, riflesso nello specchio.

Non sarebbe tornato indietro: senza Kathy non c'era nulla per lui in quel posto. Suo padre l'avrebbe rinchiuso in qualche stanza asettica a cinque stelle di un suo laboratorio segreto chissà dove, aspettando di trovare un siero che inibisse i suoi poteri. Non voleva passare la sua vita recluso come era stato per troppo tempo. Desiderava viverla, sbagliare e farsi male e crescere, fuori da quella bolla in cui i suoi genitori l'avevano sempre tenuto. Era stanco di avere paura di ciò che era diventato. Voleva smettere di soffrire, forse anche di sentire, lasciare uscire fuori tutta la sua angoscia, il suo tormento, la sua sofferenza. Lui era diverso, lo sarebbe sempre stato. Lo era sempre stato, perché lui c'era nato con quei poteri; il siero faceva solo uscire quello che era in te.

Infatti, suo padre non se l'era mai iniettato: c'era un motivo molto semplice. Aveva paura di scoprire che era come lui, che era stato lui a passargli quel patrimonio genetico LWF B. Dei tre era il gene più instabile nella mutazione e il più difficile da controllare. Rossi o bianchi, tutto sommato, potevano avere una vita quasi normale. Anche il gene blu mutato alla terza iniezione era controllabile. Tom aveva imparato, ma alla quarta, cambiava tutto. Quella siringa aveva fatto di lui un capolavoro, completando la mutazione di entrambi i geni B ed R. Gli sembrava di avere davanti lo sguardo orgoglioso di quella dottoressa, il suo sorriso. Roxy era stata molto male dopo la quarta iniezione, ma lui no. Era stato un attimo di buio e poi quando aveva aperto gli occhi era stato come rinascere.

Si concesse un ultimo atto di tregua perso nella luce del sole che filtrava tra gli alberi della vallata. Guardò il braccio e il fiore di loto dorato. Prese un paio di pinze dalla cassetta, poi chiuse gli occhi cercando in sé stesso il coraggio. Equivaleva a tagliare il cordone ombelicale, a liberarsi definitivamente della troppo ingombrante presenza dei suoi genitori: faceva male, ma era necessario. Le immagini che gli apparvero in testa affossarono gli ultimi frammenti del suo cuore: Kathy che rideva in quella vasca vuota o addormentata sotto il lenzuolo con la treccia sparsa sul cuscino. Più cambiava e più gli piaceva, questa era sempre stata la verità. La biondina ordinaria con quella treccia non l'avrebbe nemmeno guardata, ma quei capelli color cenere e quegli occhi blu lo facevano impazzire. La sua angoscia, la sua voglia di fuggire, la sua tenacia. Trattenne il fiato e si tolse i ganci con la pinza, per quanto male facesse, era più doloroso pensare che lei non fosse più, che fosse morta. Gettò i dispositivi in un cestino a fianco del tavolo. Si fasciò il tatuaggio sporco di sangue e lo coprì con la manica. Chiuse la cassetta del pronto soccorso e la riassettò in ordine come gli era stato insegnato da sua madre, con precisione e cura, con calma. Infine, uscì di nuovo all'aperto e si incamminò verso valle.

Non sapeva ancora cosa fare, ma intendeva darsi un paio d'ore per decidere quale dei tanti piani studiati negli anni fosse il più intelligente: forse camminare gli avrebbe fatto bene. Ora che era coperto dal giaccone, si godeva i raggi del sole mattutino sulla pelle del viso. Ogni passo lontano da Kathy e da quella maledetta scuola si sentiva meglio. Spense il suo cuore, concentrandosi sul presente e sul suo prossimo futuro. Due ore dopo, stava seduto sotto la pensilina degli autobus. Una gentile vecchietta gli aveva dato qualche spicciolo per il biglietto in cambio di un aiuto a caricare la spesa al supermercato: lo stava salutando dal finestrino della sua auto. Michael le sorrise di ricambio. "Difficile resistere a un rosso" pensò soddisfatto. Qualche istante più tardi l'autobus si fermò davanti a lui, salì: obliterò il biglietto e si rifugiò sul fondo. Il volto sempre nascosto dal cappuccio della giacca. Prese dalla tasca il panino che gli aveva dato quella signora insistendo che non va bene saltare il pranzo e lo addentò soddisfatto.


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