Capitolo 10 - Eyeball

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Doveva agire, si disse, non appena si svegliò quella mattina. Brick era in pericolo, ed era stato lui stesso a metterlo nei guai. Rottemberg si alzò dal letto, passandosi una mano sul viso stanco e spento. Erano anni ormai che si svegliava in un letto vuoto e gelido.

Non passava un giorno senza che pensasse a Rachel, nonostante la Ruggine se la fosse portata via anni prima.
Da quel momento, Rottemberg aveva perso la sua scintilla.

Il telefono squillò, ridestandolo da quei pensieri.

«Ho trovato una traccia. Vediamoci all'incrocio fra la Gestchzel e la Traum», e attaccò senza dargli il tempo di rispondere.

Essere il capo significava non avere mai il permesso di dire di no, di non essere presente. Tutte le mattine, Rottemberg si svegliava con la voglia di nascondersi.

Si fece forza, indossò la divisa nera e la maschera antigas, prima di fiondarsi in strada. Non c'era tempo da perdere. Brick contava su di lui.



Anita non riusciva a concentrarsi quel giorno, nessuno si era presentato a lavoro ed era certa che tutti le stessero nascondendo qualcosa. Decise di andare in palestra ad allenarsi con la katana, prima che fosse totalmente impazzita. Aveva iniziato a fare pratica con la katana dopo il rapimento. Era un ottimo modo per sfogarsi.

Era mezz'ora che stava sferrando poderosi fendenti contro un fantoccio creato appositamente da Gus per lei, quando avvertì un fruscio alle sue spalle. Il gelido fetore di morte e acredine di sigaretta la fece rabbrividire. Era l'odore di Gufo.

Eppure, era giorno. Non le aveva mai fatto visita a quell'ora, tanto meno in centrale. Rischiava di essere visto. Rischiava di far scoprire lei.
Solo in quel momento, si rese conto dei rischi che stava correndo facendo il doppio gioco con il suo peggior nemico. Doveva mettere fine a quella situazione, subito.


«Chissà quali idee frullano in quella graziosa testolina vuota», mormorò Gufo, schernendola. Anita fece scorrere gli occhi verdi per tutto il perimetro della palestra, finché non lo notò. Era appollaiato come un vero gufo, appena sotto la finestra più alta.

Stranamente, indossava la maschera antigas, - forse un misero tentativo di non farsi riconoscere -, e le fece un ciao con la mano, non appena si accorse che era entrato nel suo campo visivo.

«Che cazzo ci fai qui?» berciò Anita, stringendo forte la katana. Avrebbe potuto fargli del male. Non aveva mai avuto un'arma in mano mentre si trovava vicino a lui. Il pensiero la riempì di panico.

Gufo atterrò accanto a lei in un solo balzo, pericolosamente silenzioso e regale nelle sue mosse assassine.

«Sono qui perché, come immaginavo, nessuno ti sta dicendo le cose importanti», mormorò, slacciandosi la maschera, e gettandola ai piedi di Anita.

Si rese conto che era la prima volta in assoluto che lo vedeva alla luce del giorno.

I tratti del suo viso sembravano essere stati disegnati da una matita con la punta spezzata, tanto erano netti e spigolosi. I suoi occhi erano grigi, ma trasudavano una pericolosità felina.

Eppure, erano giganti, come quelli dell'animale da cui prendeva il nome. I suoi capelli biondi ossigenati erano sudati e tutti appiccicati al volto, che sembrava essere stanco.

Lo vide molto più umano di come le tenebre lo volevano far apparire.
Anita scosse la testa, cercando di cancellare quei pensieri.

«E quindi?»
«Nessuno ti valorizza per l'ottimo elemento che sei, piccola Anita. Non si ricordano che hai quasi mandato Jep in galera, da sola»

Se lo ricordano eccome, temo, pensò fra sé, ed è proprio per questo che non mi dicono più nulla.

«Puoi raccontarmi tu quello che mi sto perdendo, no?» chiese Anita, cercando di dargli un'importanza che non si meritava. Se c'era una cosa che aveva imparato di lui era che, se adulato, diventava molto più malleabile.

«Non ti sei accorta che manca qualcuno dei tuoi amici all'appello, Anita?»

Quella semplice frase era l'esternazione della paura che provava in fondo al petto da giorni.
«Brick», mormorò, dimenticandosi per un secondo di Gufo. «Che gli ha fatto?»

Lui aveva uno sguardo impassibile, da puro psicopatico. Sembrava che stesse parlando di cosa mangiare a cena, invece stavano disquisendo di una persona rapita da un sadico.

Gufo gettò il suo sguardo altrove, e i suoi occhi parvero diventare vetro.

Le consegnò una scatola di metallo, - forse tempo prima doveva essere stato un contenitore di carne in scatola -. Emanava un odore nauseabondo, tanto che anche Gufo storse il naso mentre glielo porgeva.

«Aprila», le intimò, riportando l'attenzione su di lei.

Anita prese la scatola con mani tremanti. Quella robotica riuscì ad aprire il contenitore, senza troppe difficoltà. Prima di sollevare il coperchio, Anita lanciò uno sguardo a Gufo. Sembrava pregustare un momento. Lei seppe subito che stava per assistere a qualcosa di orribile.

Quando riportò l'attenzione sulla scatola aperta, la lasciò istintivamente ricadere a terra.

L'occhio vivo, gelatinoso e ricoperto di filamenti di sangue che doveva essere appartenuto a Brick rotolò sul pavimento, mentre Anita non riuscì più a trattenere il vomito.

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