Capitolo 22 - Ataka

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Jep si rese subito conto che Gufo era rientrato a casa. Mancava da qualche giorno, ma non si era ancora preoccupato. D'altronde, perché avrebbe dovuto preoccuparsi di un Diverso?

Odiava quella specie, ringraziava il cielo tutti i giorni che fossero stati rinchiusi in un altro Distretto. L'unico che riusciva a tollerare era Gufo, ma solo perché obbediva ciecamente ai suoi ordini.

Lo vide entrare nella stanza e versarsi da bere. Non gli disse neanche una parola. Jep intuì subito che fosse di cattivo umore e, se c'era una cosa che aveva imparato di Gufo, era che non doveva fare domande quando era in quello stato. Stranamente, però, fu proprio il suo schiavo il primo a parlare.

«Ho fatto quello che avevi chiesto», mormorò, quasi a labbra serrate.

«E dov'è?»

«Dove dovrebbe essere», mugugnò, lasciando il grande salotto senza dare ulteriori informazioni.

Jep avvertì i passi ovattati di Gufo salire lungo le scale della magione, calpestando la moquette rossastra che le ricopriva.

Rimase nel silenzio della sua immensa casa, rotto solo dal ticchettio del ghiaccio che si infrangeva contro le pareti del suo bicchiere da brandy, fino a che non avvertì la chiara presenza dell'unica persona al mondo che davvero temeva. Lo fissava da dietro la finestra. Dei brividi di freddo gli percorrevano la schiena, non dandogli neanche la forza di reagire.

«So che sei lì», mugugnò Jep, mascherando il tono spaventato.

Nessuno rispose, ma continuò a parlare.

«Non pensavo ti trovassi in questo Distretto».

Una lieve risatina, prologo di morte, lo convinse che si trovasse effettivamente lì. Non era un sogno.

«Ancora non hai imparato, Jep? Io sono ovunque».



Non poteva tornare a casa; il confronto con River sarebbe stato troppo doloroso. Pensò di rifugiarsi a casa di Gus, l'unico che sembrava non odiarla, ma non voleva disturbare lui e la sua famiglia nel pieno della notte. Decise, quindi, di rimanere a dormire in centrale. Fortunatamente aveva la copia delle chiavi ed era certa che nessuno le avrebbe detto niente se lo fosse venuto a sapere.

Entrò e accese subito la luce sfarfallante al neon che accompagnava le loro giornate lavorative da almeno tre mesi. Si accomodò dietro la sua scrivania e appoggiò i piedi su di essa, mettendosi abbastanza comoda per poter chiudere gli occhi e appisolarsi.

La fame si stava facendo strada nella sua mente, rendendola offuscata. Si rese presto conto che dormire in quello stato era praticamente impossibile; infatti, si alzò di scatto e decise di fare un giro per la centrale sperando di trovare qualcosa di cui nutrirsi.

Il pian terreno era, ovviamente, sgombro di qualsiasi cosa potesse essere anche solo vagamente appetibile per lei. C'erano dei distributori automatici, ma solo l'idea di mangiare un pacchetto di Oreo stantii le faceva venire la nausea. Quella realizzazione la rese triste, oltre che affamata. Una volta lei e Brick facevano a gara la mattina per riuscire ad accaparrarsi l'unico pacchetto di Oreo. Ora le sembrava che tutte quelle piccolezze facessero parte di un altro tempo. Diede un piccolo calcio al distributore e si diresse verso il sotterraneo.

Nessuno di loro ci andava mai, tranne Ivor, della scientifica, e River. Tutti gli altri si tenevano alla larga da quel posto per via della puzza di ammoniaca e detergenti e, soprattutto, per la presenza di cadaveri sezionati.

Anita, ormai, si trovava insensibile a quel tipo di visioni, per quel motivo non si meravigliò troppo quando vide il cadavere di Brick, aperto a metà dalla cassa toracica e coperto alla bell'e meglio con un lenzuolo giallognolo. Anita intuì subito che i suoi colleghi avevano seppellito una bara vuota per avere più tempo per svolgere le loro indagini, senza destare sospetti in Jep. Doveva essere stata un'idea di Rottemberg.

Rimase immobile a fissare il volto spento dell'amico. Non sembrava neanche lui, ormai. Anita si rese conto di non provare alcuna emozione alla sua vista.

«Anita? Che ci fai qui?» trillò la voce esterrefatta di Ivor. Stava tornando dal bagno e sembrava assolutamente sconcertato nel vederla lì. Le pupille di Anita si dilatarono alla vista dell'uomo. Era strano che non l'avesse sentito muoversi, ma si rese conto che la fame doveva averla indebolita molto.

«Mi hanno cacciato di casa. Tu che cosa fai qui, Ivor?» chiese Anita, stringendo forte il tavolo di alluminio sotto il cadavere di Brick. La lotta contro il suo cervello e la fame stava diventando impossibile da combattere. L'odore di carne fresca sovrastava quello dei cadaveri.

«Mi dispiace...» commentò l'uomo, cercando di rilassarsi. «Anche io, direi. Ho litigato con mia moglie, quindi ho pensato di portarmi avanti con il lavoro».

Anita rimase in silenzio, fissando un punto preciso del pavimento per cercare di trattenersi dall'uccidere Ivor.

«Ehm... n-non che Brick sia solo un lavoro, era un amico... m-mi dispiace molto» aggiunse subito, impacciato.

Anita alzò la mano robotica, facendogli capire che aveva capito benissimo cosa intendesse. Purtroppo, però, la fame le impediva quasi di proferire parola.

«Sei sicura di star bene, Anita? Ti vado a prendere dell'acqua?» chiese Ivor, facendo per salire le scale che lo avrebbero condotto al piano di sopra.

«No. Va tutto bene. Piuttosto, hai trovato qualcosa su Brick?»

Ivor scese di nuovo, lentamente, avvicinandosi ad Anita.

«Non molto, purtroppo. Morto sul colpo, taglio netto e preciso sulla giugulare. Nessuna impronta né traccia», mormorò, triste. «L'unica cosa strana è che di solito i tagli sulle vittime di Jep sono tutte fatte dalla stessa lama di coltello, ben affilato, da macellaio. Questa è diversa».

Anita annuì. L'odore del suo alito misto a quello della sua pelle rendeva estremamente piacevole la conversazione. Immaginò cosa avrebbe provato un tempo a chiacchierare amabilmente con un cheeseburger, poi si diede della sciocca e ritornò a prestare attenzione.

«Questo sembra il taglio di un Ataka. Almeno da una prima analisi posso confermare solo questo»

«Grazie Ivor», asserì la detective, muovendosi verso le scale. «Ora è meglio che vada».

Ivor la fissò come se fosse impazzita, cercando di venirle dietro in modo un po' impacciato. I suoi chili di troppo lo rendevano goffo nei movimenti, fortunatamente.

«Ma è notte fonda. Dove andrai? Pensavo rimanessi qui per la notte».

Lo pensavo anche io, pensò Anita fra sé, cercando di mantenere una parvenza di calma.

«Mi sono appena ricordata di avere un appuntamento. Ci vediamo domani!» quasi urlò uscendo dal sotterraneo e precipitandosi fuori dalla centrale, dove l'odore della ruggine coprì tutto il resto con la sua patina metallica.

Il battito cardiaco di Anita si ristabilizzò quasi subito. Era da sola, in piena notte, con una fame che l'avrebbe sicuramente uccisa a breve. C'era solo una persona che avrebbe potuto aiutarla.

Doveva trovare Gufo.

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