Capitolo 44 - Cartoon

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L'ospedale psichiatrico giudiziario Nikosia era uno dei tantissimi edifici del sottosuolo, che era stato costruito per necessità, a causa della quantità spropositata di persone che, con la scusa dell'avvento della Ruggine, avevano iniziato a uccidere gente a caso per poi spacciarsi per matta.

Anita credeva che la Ruggine non fosse una scusa sufficiente per uccidere, rubare o fregare soldi al Distretto, motivo per il quale odiava il Nikosia.

Gli psichiatri le avevano rovinato una miriade di casi, ma non sarebbero riusciti a farlo con quello di Tucci.

Jep doveva finire in prigione, non avrebbero salvato anche lui con quella stupida scusa della malattia mentale.

Fu con quel cipiglio battagliero che fece il suo ingresso nella tenuta ospedaliera del Nikosia.

Una distesa di campanule viola, plastificate, adornava entrambi i lati del viale. L'edificio era piuttosto malmesso, sembrava quasi fosse stato abbandonato da tempo; vera ruggine che si stava mangiando tutto il palazzo, crepato dall'umidità e dalla vita sotterranea.

Anita oltrepassò la porta a vetri - incrinati e scheggiati -, e attese appoggiata alla scrivania della reception.

Una infermiera sulla quarantina corse velocemente verso di lei, producendo un fastidioso ticchettio cadenzato sul pavimento di linoleum lucido a scacchi bianchi e neri.

«Buongiorno, come posso aiutarla?» chiese la donna, aveva il respiro affannato, ma un sorriso accogliente.

Anita estrasse il distintivo dalla giacca blu della divisa, cercando di nascondere la mano robotica. Evitava sempre di farla vedere davanti a dottori, infermieri e similari perché avevano la brutta abitudine di voler cercare di aiutarla a forza.

«Polizia Distrettuale, detective Anita Miller», asserì in modo glaciale. «Jep Tucci ha chiesto di vedermi».

L'infermiera deglutì visibilmente quando Anita nominò Jep.

«Sì, ha chiesto di lei», borbottò la donna, scribacchiando qualcosa su un foglio. «Dovrà interrogarlo o si tratta di una visita familiare?»

E che cazzo ne so, pensò Anita, stressata. Scosse violentemente il capo, facendo muovere il suo caschetto di capelli in tutte le direzioni.

«Non ho né un copione né una scaletta, sinceramente. Voglio solo sapere che vuole da me», rispose Anita, esasperata.

L'infermiera le rivolse uno sguardo truce, poi continuò a scrivere.

«La porterò dal dottor Freideich, lo psichiatra che sta seguendo suo padre»

«Non voglio parlare con nessuno psichiatra».

Avrebbe voluto aggiungere che Jep non era suo padre, ma purtroppo era la verità e smentirla avrebbe creato solo ulteriore confusione.

«È la prassi, detective», sentenziò l'infermiera con un tono che non ammetteva repliche.

Anita cercò una parvenza di calma e proseguì. Erano giunte a un bivio da cui si diramavano due corridoi apparentemente identici. L'infermiera le indicò il corridoio a destra, con fare assorto.

«Prima porta a sinistra. Il dottor Freideich la sta aspettando»

Anita annuì, dopodiché la vide dirigersi verso l'altro corridoio, da cui provenivano urla e bestemmie.

Mosse alcuni passi incerti verso la direzione che le era stata indicata dall'infermiera, ma non era affatto sicura di voler parlare con lo psichiatra che aveva in cura Jep Tucci. Non sapeva cosa le avrebbe potuto raccontare riguardo ciò che c'era all'interno della testa di suo padre, e il pensiero la rendeva inquieta e pensierosa.

Non fece in tempo a completare quelle riflessioni, che un uomo distinto e dal portamento elegante si affacciò dalla prima porta a sinistra, facendole un cenno di saluto. Indossava un lungo camice bianco sporco che gli calzava più piccolo rispetto alla sua statura.

«Anita Miller? Prego, si accomodi», disse lui, con voce squillante. Aveva un aspetto giovanile, ma pulito. Anita si avvicinò, perplessa.

«Dottor Freideich?»

«Mi chiami pure Adam», rispose lui, stringendole la mano vigorosamente. Ora che lo vedeva da vicino, Anita notò che aveva più o meno la sua stessa età. Gli occhiali spessi non riuscivano a coprire a sufficienza il suo viso squadrato. Anita pensò istantaneamente che fosse un bell'uomo, ma scacciò quel pensiero nel più breve tempo possibile.

Il suo studio era piccolo, fatiscente come il resto della struttura, ma lui era riuscito ad arredarlo in modo che non mettesse particolare soggezione. Poggiati sulla scrivania c'erano una fila infinita di pupazzi di gomma e statuette, che dovevano rappresentare vari personaggi dei cartoni animati. Anita stiracchiò un flebile sorriso, prima di sedersi sulla sedia di plastica nera posta davanti alla scrivania del medico.

«Dovrei vedere Tucci», spiegò Anita, cercando di mantenere la calma.

«Lo so. Ci tenevo a conoscerla, prima», spiegò Adam, con un leggero brillio negli occhi scuri.

«E perché?»

Anita iniziava a sentire un profondo senso di disagio in quella situazione. Aveva sempre cercato di evitare psicologi e psichiatri, soprattutto dopo la sua prigionia. Non voleva parlarne con nessuno, non voleva più pensarci. Ogni ricordo che riaffiorava prepotente era come una coltellata in pieno petto.

«Scherza? La mente di suo padre è come un quadro super dettagliato. Più mi avvicino e più vedo microscopie e minuzie incredibili. Lei è un tassello imprescindibile in tutto quel meraviglioso caos», trillò Adam, emozionato. Ogni parola grondava un amore e una dedizione per il suo lavoro fuori dal comune. Anita non riusciva a essere altrettanto entusiasta della mente di suo padre.

«Non è mio padre. Sono nata e cresciuta in un orfanotrofio, non ho idea di chi sia Jep Tucci», chiarì Anita. «Abbiamo solo la sfortuna di condividere del DNA».

Adam si alzò dalla sua sedia di pelle girevole, di scatto. Anita sobbalzò a quel gesto inconsulto.

«Se capisco lei posso capire anche lui»

Anita iniziò a mettere insieme i pezzi del pietoso puzzle che le si parava davanti gli occhi.

«Jep non ha mai chiesto di vedermi, vero?»

Adam negò, con espressione evidentemente divertita sul volto.

«La prego. Mi conceda solo due ore alla settimana»

«Non sono un cazzo di fenomeno da baraccone», sputò Anita, facendo per alzarsi dalla sedia.

Adam la afferrò per il polso sinistro per cercare di fermarla, ma Anita si rivolse verso di lui, scoprendo i denti in un ringhio gutturale e animalesco. Adam fece qualche passo indietro, spalancando gli occhi.

«Mio padre non le ha detto proprio tutto su di me, a quanto vedo», sorrise Anita, amaramente. «Non c'è bisogno di avere paura. Non le farò del male, solo... non mi tocchi».

Adam annuì, ma dal suo sguardo era palese che l'attenzione nei suoi confronti era aumentata. Figlia del pazzo squartatore Tucci e una Diversa. Doveva aver vinto alla lotteria. Le lasciò il polso, con movimenti a scatti.

«Ci pensi, Anita. Posso darle del tu?»

Anita annuì, con sguardo pensoso, per poi fare un cenno di saluto al dottor Freideich e uscire dalla stanza.

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