Capitolo 46 - Rainbows

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Considerando che Adam Freideich era uno psichiatra piuttosto rinomato, Anita rimase stupita quando la accolse nel suo studio vestito con un camice dipinto con tutti i colori dell'arcobaleno.


Lei si limitò a fissarlo come se fosse impazzito anche lui e si sedette su un lungo divanetto di pelle marrone. Adam le sorrise e si accomodò sulla sedia della sua scrivania, esattamente dietro di lei. Non poterlo vedere in faccia avrebbe dovuto facilitarla a parlare senza freni, ma in realtà riusciva solo a metterla ancora di più a disagio.


«Allora, Anita... parlami di te», esordì Adam. Il suo tono di voce era allegro, come se avesse aspettato quel momento per tantissimo tempo.
Anita aveva sempre odiato quella domanda, era una introspezione che riusciva a metterla in difficoltà. Parlare di lei?


C'era un mondo intero di cose da dire, ma allo stesso tempo non c'era niente. Era in quei momenti che tutta la sua esistenza si risolveva in pochi meri attimi superflui.


«Non saprei da dove cominciare»


Adam fece un risolino. «Prova a partire dall'inizio»


«Mi chiamo Anita Miller, sono nata nel 2649. Sono cresciuta all'orfanotrofio Bellish, nel sottosuolo».


Anita arrestò lievemente il passo con cui stava iniziando a raccontare, perché si rese conto di non avere più niente da dire sul suo passato.

«E...?» chiese Adam, la voce incuriosita. Anita lo sentiva muoversi di continuo sulla sua sedia girevole. Sembrava fosse seduto su bracieri ardenti.


«E basta, direi. Ricordo poco e mal volentieri la mia infanzia»
«Sai che la psicoterapia è basata esattamente su questo concetto, vero?»


Le sfuggì una risata.
Dannato River, si era lasciata convincere a fare qualcosa che non voleva fare, di nuovo.


«Come mai hai il camice tutto colorato?» chiese Anita, cercando di smorzare la tensione.
«I colori aiutano determinati pazienti a rilassarsi. Oggi hanno voluto colorare me, e gliel'ho lasciato fare», spiegò lui.


Seguì un lungo attimo di silenzio, in cui nessuno di loro trovò qualcosa da dire.


«Pensi che mio padre uscirà mai da questo posto?»


Adam si immobilizzò.

«Non merita di stare qui a giocare coi colori. È una persona di merda, va rinchiuso nella cella più fredda e isolata del Distretto»
«Tuo padre è pazzo, Anita. La sua vita è stata difficilissima. Va curato».


Anita si alzò in piedi, esterrefatta.

«E la mia, invece? Quell'uomo mi ha torturato, ha fatto uccidere mio fratello, ha ucciso i genitori dell'uomo che -»

Anita si interruppe bruscamente.

Dell'uomo che amo? Sorrise di sé stessa. Lei non poteva amare Gufo.
Che diavolo di pensiero stupido. Come si poteva amare qualcuno e condannarlo allo stesso tempo?
Adam non investigò oltre su quella frase, fortunatamente.
In quel momento il telefono di Anita squillò, distogliendo entrambi da quel momento di profonda riflessione. Rispose con un semplice 'mh?'


«Smettila di giocare a fare Freud, devi correre in centrale. C'è stato un omicidio».


La voce di Rottemberg fu una doccia gelata. Il dottore doveva aver udito tutto attraverso l'altoparlante del suo cellulare, che, nel silenzio più totale rimbombava per tutta la stanza.


«Mi dispiace, Adam, emergenza a lavoro».


Lui le rivolse un sorriso, mentre si alzava in piedi per stringerle la mano in un saluto.
«Ci vediamo la prossima settimana?» chiese lui, speranzoso che non avesse cambiato idea.
Anita sembrò rifletterci su per un momento.


«Va bene, basta che ti ricordi del nostro patto. Un giorno dovrò parlare con Jep».


Adam le rivolse un sorriso sincero, prima di annuire.

Anita accorse nel più breve tempo possibile, trovando tutti i suoi colleghi riuniti attorno al tavolo di alluminio di Ivor, nel sotterraneo. Stavano esaminando il corpo, quindi le prestarono poca attenzione.


«È la prima volta in quasi dieci anni in cui non abbiamo alcuna idea di chi possa essere il colpevole», sentenziò Rottemberg, attonito.
«Il modus operandi sembra essere lo stesso che adottava Tucci»
Anita sentì un dolore fisso al petto, come se qualcuno con un punteruolo stesse cercando di scalfirla.
Si fece spazio tra i colleghi per riuscire a vedere il corpo.


Un uomo sulla trentina, folti capelli neri, pelle diafana da cui si poteva intravedere un reticolato di vene bluastre e grigie completamente rotte, sottopelle. Gli occhi erano esplosi, così come le orecchie. Il resto del corpicino magro e deperito dell'uomo sembrava intatto.


«Ivor gli ha fatto una ecografia. Da quello che ha potuto vedere sembra che un topo, – pieno come un palloncino di siero Rust -, sia stato inserito all'interno del retto di quest'uomo. Praticamente si è mangiato tutti i suoi organi interni», spiegò Rottemberg.


«Possiamo smettere di ripeterlo, grazie?» chiese Gus, trattenendo un conato.


«E il topo?» chiese Anita, guardandosi intorno preoccupata. Un topo normale era una cosa, un topo drogato di siero Rust era potenzialmente mortale se lasciato libero di scorrazzare.


«Ivor è riuscito a catturarlo», rispose Rottemberg, indicando un cubo spesso di materiale metallico all'estremità della stanza. «Fortuna che dopo il tuo rapimento abbiamo fatto scorte di titanio».


Anita si avvicinò al cubo da cui proveniva un rumore sordo, come se il topo stesse battendo la testa contro le pareti della gabbia. La detective rabbrividì. Come poteva una creatura così piccola metterle così tanta paura?


«E bravo Ivor», commentò Anita, tornando al suo posto. L'uomo sembrò arrossire visibilmente, ma continuò a lavorare al computer, dopo averle rivolto un sorriso dolce.
«Dove lo avete trovato?»


«Su un tavolo di una macelleria abbandonata, in periferia», rispose Rottemberg.
La periferia era un quartiere usato raramente da Jep, ma durante le sue prime indagini Anita aveva trovato proprio in quel settore due suoi rifugi.


«Butcher's Joe, per caso?»


Rottemberg annuì, ancora assorto nella visione del cadavere.

«State tutti pensando quello a cui sto pensando io?» chiese Anita, tornando davanti al cadavere.
«Io sto pensando che devo vomitare».


Rottemberg diede un buffetto a Gus, dietro al collo.

«Gufo?» chiese il caposquadra, guardandosi intorno preoccupato.
Anita annuì, lanciando un'occhiata complice a River.
«Devo parlare con Jep», asserì Anita. «È l'unica pista che abbiamo. Non appena avete identificato l'uomo chiamatemi».


Per Anita era chiarissimo che fosse Gufo l'artefice di quel delitto. Il siero Rust, quel sadismo inconfondibile, la cattiveria senza senso... eppure non riusciva a trovare il movente.
Gufo avrebbe dovuto uccidere lei, stando a quanto aveva annunciato.
Uscì dalla centrale, dirigendosi nuovamente a Nikosia, dove non si sarebbe certo messa a parlare di arcobaleni e colori.

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