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La scuola era una palestra di vita, nel senso che anticipava grossomodo alcuni aspetti dello stare nel "mondo esterno". O meglio, riassumeva qualcosa che già mi era noto alle elementari a proposito delle convivenze forzate e della tolleranza reciproca.

Se oggigiorno si discute sul fallimento della sua missione e della rottura del patto educativo tra insegnanti e genitori, una definizione impeccabile di "scuola" la diede il mio professore di diritto: "parcheggio", nel quale si incanalavano indistintamente tutti gli individui senza rispettare gli obbiettivi formativi dietro l'offerta didattica. E in quel parcheggio, infatti, c'era un gran miscuglio di soggettività che vi sostavano a chissà che scopo, e non con tutti avevo confidenza.

Agli inizi del mio terzo anno di scuola superiore, mentre tacito e tra le nuvole mi chiedevo se un domani avrei intessuto rapporti con dei compagni che ancora mi sembravano estranei, il professor Roccatagliata godeva di un ottimo stato di forma. Era una mattina qualsivoglia di un'ora tra le troppe, e lui si aggiustava il biondo riporto con l'eguale frenesia di Sgarbi durante un battibecco. Non ricordo da cosa cominciò il discorso, ma ricordo ch'era vivace e prolisso, partito in una digressione sul maestro Heidegger che i più seguirono con fatica – anche perché non era nel programma.

«Bisogna sostare nella domanda» disse l'anziano professore dal verde maglioncino, squadrando ognuno di noi. «So-stare nella domanda.»

«So-stare» ripetei bisbigliante, riflettendovi su.

Sostare. Parcheggio. Sostare. So stare. So stare?

Non ero pronto per darmi risposte, magari neanche dovevo darmele. Ma Roccatagliata era in gamba, teneva svegli i ragazzi e sapeva come far divertire una classe pure con la complessità degli autori più difficili, perciò quel tentativo di sostare nel parcheggio della scuola fu un gradevole smarrirmi su indicazione proprio di un professore. Avendo lo sguardo perso nel vuoto, inanimi pupille rivolte alle rughe dell'insegnante, destai la preoccupazione della mia compagna di banco.

«Tutto a posto?» Desiree mi diede una lieve gomitata sul deltoide. Intontito, tornai sulla Terra. «Ti sei addormentato con gli occhi aperti?»

«Ho avuto un attimo di tilt» le dissi, e lei si coprì le labbra perché evidentemente mi trovava buffo.

Dopodiché, sussurrando e stando attenta a non disturbare il monologo di Roccatagliata, s'interessò al mio stato. «Il tuo fratellino non ti ha lasciato dormire stanotte o hai fatto ancora le ore piccole?»

Delizia e tanto bene, una come Desiree nasce ogni cento anni almeno. Di famiglia modesta e di buon rendimento, si vedeva che veniva dalla campagna e che le piaceva abitarci. Pulita, tranquilla, senza vizi e senza malizia; quel tipo di ragazza che attira gli appetiti perché pare che vi sia un certo gusto nell'imbrattare ciò che è lindo. Solo che Desiree si distingueva poiché già molto matura, e come il mio il suo viso non dimostrava sedici anni – neanche i suoi glutei: il suo fidanzato non poteva che sedere nella classe accanto, a prepararsi per l'esame di stato, alla faccia dei nostri compagni che si sarebbero venduti l'anima per poterla tenere per mano.

Con me, però, aveva creato un'amicizia sincera, ai limiti dell'intimo, perché la mia sobrietà non rappresentava una minaccia, tutt'altro. Essendo quindi un fortunato, digerii il dispiacere di non averla conosciuta prima delle superiori e smisi di sostare nelle domande senza risposta, con disappunto – o qualcosa del genere – di Roccatagliata.

«Sempre voi due» ci redarguì appena notò il nostro chiacchierare. «Parlate ancora di musica?»

La citazione all'interesse che mi accomunava a Desi, anche lei appassionata di canto e dotata di uno splendido timbro soul, si presentò come un'occasione ideale per riprendere le abitudini dell'anno passato.

«No no, mi stavo lamentando perché stanotte mio fratello non mi ha lasciato dormire, quel bambino piange di continuo» mentii spudoratamente, ma Roccatagliata non poteva saperlo.

«Ecco perché hai quella faccia sconvolta, sembri appena tornato da Baghdad» commentò lui, e alcuni ridacchiarono. «Su, andate a fare due passi fino alle macchinette, prendete quello che volete e per me un caffè macchiato.»

Dalla tasca estrasse la sua chiave magnetica, simbolo del potere dei docenti su noi poveri alunni. Io e la mia compagna ci alzammo e prendemmo con piacere la gentile offerta del professore, che, sorridente, aggiunse: «Mi raccomando, non perdetevi per i corridoi. Da voi mi aspetto la solita media e poche assenze.»

«Non si preoccupi» rispondemmo all'unisono, ma non potevamo affatto garantirgli che non ci saremmo dilungati: avevamo entrambi bisogno di una dose quotidiana Somebody told me dei Killers e il lettore cd di Desiree aveva due auricolari pronti all'uso. Non contenti, dovevamo organizzarci il fine settimana, e tutti sappiamo che non è una matassa che si sbroglia in pochi minuti.

«Potrei chiedere al mio fidanzato se ci accompagna in macchina al Seven» considerò lei, che tra le piccole dita reggeva il cappuccino con cioccolato mentre il portinaio, perennemente seduto nell'atrio ove stavano le macchinette, ci scrutava sospettoso.

«Buona idea, ma se andiamo di sabato dobbiamo aspettarci non poca baraonda» appuntai cercando di non ustionarmi col bicchierino da portare a Roccatagliata. «Dopo la mezzanotte mettono la musica da discoteca.»

«Mmh, potrebbe essere un problema?» rifletté annodandosi una ciocca di capelli attorno all'indice. Quei lunghi capelli che mi aveva insegnato ad acconciare in vari modi, non avendo io sorelle da cui apprendere per poi applicarmi con Alice. Che nervi mi vennero a ripensare alla mia dannazione colloquiando con una cara amica che pianificava come ci saremmo andati a godere la giovinezza, ma dovevo accettarlo: perché Alice se ne andasse dalla mia testa, avrei dovuto aspettare tanto tempo o prendere una facciata da un'altra parte.

«Per me no» mi feci coraggio, sebbene lei si accorse della mia momentanea titubanza. «M'interessa cantare due canzoni e passare una serata con te, se c'è casino pazienza.»

Desiree, empatica, mi vide attraverso. Liberò l'indice dal nodo di capelli, sollevò le iridi nocciola per incontrare i miei occhi e mi accarezzò la fronte, facendo scorrere i polpastrelli fino alla mia guancia. Un gesto semplice che mi sedò.

«Stai ancora pensando a lei...» sussurrò dolcemente.

«Come fai a dirlo?» le sorrisi.

«Forse sono una strega, oppure tu sei tanto trasparente. Vieni qui.»

Poggiò i due bicchierini su un tavolino vicino alle macchinette e nell'atrio silenzioso volle tenermi le mani tra le sue. Che bella sensazione fu.

«Ti sottovaluti, sai?» mi ammonì con tenera pazienza. «Anche se affronti le cose con ottimismo e non ti abbatti mai, ora ti sei infilato in una situazione che ti fa solo male. Non lo dai a vedere, ma io ti vedo sempre, non ti puoi nascondere.»

Guardai le mani, cercai d'immaginarmi in un brutto sogno. «Non mi sottovaluto» mormorai, «ma...»

Ma niente, aveva ragione Desiree. Stavo male, un male tutto nuovo e difficile da comprendere, perché non ero né carne né pesce, né motivato né sconfitto. E il mio ottimismo era consuetudine, a rigor di logica non avrebbe dovuto sussistere in presenza del malanimo. Sorridevo, ma dentro andavo in pezzi e capivo soltanto di sguazzare nella confusione, nel desiderio di avvelenarmi con Alice e nell'impormi di credere che di meglio non avrei voluto, perché di meglio non ce n'era. Desi era di un altro avviso.

«Non raccontarti bugie, avanti» mi contestò incorrotta, languida. «Sei un ragazzo intelligente e dal grande cuore, una rarità. In questa scuola siamo poche ragazze, ma se fossi in un'altra avresti la classica fila che non finisce più. Lo so che è facile parlare, lo è sempre quando non si sta dentro alle cose. Chiediti questo e sosta nella domanda: davvero voglio una persona che non mi apprezza per come sono?»

Non ci sostai nella domanda, ma feci finta del contrario. Almeno, nel continuare a illudermi, mi presi secondi preziosi di conforto da parte di una di quelle poche persone che nella teenage wasteland* era capace di muoversi con disinvoltura, guidando pure coloro che avevano perso la bussola tra testosterone e ribellioni all'aria. Ero davvero fortunato.

«Cazzarola, hai sbagliato scuola, dovevi andare al sociopsicopedagogico» mugugnai. «Non ti farò sprecare altro tempo, hai pienamente ragione. È un momento, passerà.»

Lei tenne a ribadire: «Troverai la ragazza adatta te, che sia o no la tua priorità. Ripetilo.»

«Troverai la ragazza adatta a te.»

«Non io, tu!» rise la mia amica, e mi diede più sollievo dei Killers.

Di ritorno in classe, perduti dieci minuti di lezione e diversi gradi di temperatura del caffè macchiato, seguimmo il tragitto più breve, percorrendo un piano dove erano state distribuite le sezioni dell'istituto accorpatosi al nostro durante l'estate. Una terra straniera, per scherzarci su, appartenente adesso a studenti che nel plesso di appartenenza stavano stipati come sardine in una scatoletta. Ebbene, se la vita non è strana, ditemi voi un aggettivo adeguato per riferircisi.

Vorrei illuminarti l'anima.

Nel blu, nei giorni tuoi più fragili io ci sarò...

Arrestai il passo poco prima di salire la scala. Non poteva essere, non aveva senso.

Desiree mi richiamò a sé, perplessa per il mio blocco. «Che c'è?»

Come una musica, come domenica.

Di sole e d'azzurro.

Seppur piano, quasi con timidezza, la voce si celasse da qualche parte nel corridoio, ero sicuro di aver captato con chiarezza. Se non erravo, per la precisione essa proveniva dal bagno delle ragazze, dietro una porta chiusa.

«La senti?» chiesi a Desi, che annuì all'udire il pudore di quel canto. Non sbagliavo, l'avevo riconosciuto, eppur non vi credevo.

Voglio parlare al tuo cuore come acqua fresca d'estate,

far rifiorire quel buono di noi,

anche se tu,

tu non lo sai.

Non sono e non ero uno stalker. Mai mi sarei sognato di violare gli altrui spazi senza avere la minima complicità. Però, quella volta, il mio corpo si mosse da solo; le mie gambe marciarono lente nella direzione dell'eco, infischiandosene che l'accesso al bagno mi fosse precluso. D'improvviso, la porta fu spalancata e lei apparve. Forse, proprio come noi due, aveva perso troppo tempo, incantatasi nel suo mondo: corse fugace, non accorgendosi che io e Desi fossimo a pochi metri da lei e che la stessimo guardando. Ma il suo correre in classe fu così lesto da non consentirmi di vedere più che il suo orecchio sinistro, la chioma raccolta in un muccetto** infilzato da un fermacapelli, un fisico un po' troppo snello e non più alto di quello della mia compagna di banco. Neppure ebbi il tempo di distinguere i colori di cui vestiva, tranne il blu dei pantaloni. Svanì dietro la porta della sua aula e noi restammo sul posto.

«Abbiamo un'altra cantante» osservò Desi. Io tacqui per la riscoperta dell'effetto che sere prima mi aveva stordito per strada.

Ecco che balenò un pensiero in cui sostare. Purtroppo ricevetti un SMS che mi rovinò la mattinata e il lieto figurare chi fosse quella misteriosa ragazza.

*Riferimento alla canzone Baba O'Riley degli Who.

**Probabilmente derivante da "mucchietto", a Genova è la parola che sostituisce "crocchia".

Spazio autore

Sostare. So stare?

Come dice la mia nuova master, bisogna saper soffermarsi sulle cose. Aggiungo io, saper stare immobili a concepire il nostro non sapere nulla e imparare a ad accettarlo. Si chiama erotematica, figlia di Socrate: conoscere attraverso le domande, non le risposte.

Ditemi, quando è stata l'ultima volta che vi siete fermati in questo mondo che non fa che correre e correre sempre più veloce, in una paradossale rotazione che ha bloccato la conoscenza?

Se vi sembra che qualcosa non va, che tutto stia peggiorando e che l'oscurità sia ormai calata, è nelle domande non formulate che risiedono le soluzioni.

Siamo sulla via.

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