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Quando non ha il telefono in mano, mio fratello tiene una pericolosa sfera di gomma piuma, disegnata e cucita per somigliare a una palla da baseball. Ci palleggia, la fa roteare sul dito, di punto in bianco se la alza da solo e con la ridicola forza che ha nelle braccia va di schiacciata; se non in testa, mi prende sempre sul torace.

Lo fa apposta, alle volte si diverte con poco. È per deridermi, per sminuirmi. Per illudersi di essere migliore.

Adesso non può farlo, perché sto radendo quella poca barba che ho in viso e vedermi a petto nudo lo persuade a lasciar perdere. Almeno finché non avrò finito.

«Che pezzo di merda che sei, la tipa era fidanzata» sogghigna sulla bidet. «Non desiderare la roba degli altri, non desiderarne la sposa*.»

«Come è erudito, eccellenza» mormoro, poi intono: «Chiedetelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa. Vedrà, signore, che la retta via da seguire spesso non è quella indicata né dai comandamenti né dall'altissimo. Ma è ancora troppo piccolo per capirlo.»

«Ma vaffanculo, primo ministro» fa lamentoso. «Che lei ci creda o no, ho becciato** con quasi tutte le fidanzate dei miei compagni di squadra.»

«Lodevole, i miei complimenti.»

«Va bene, confesso. Non con quasi tutte, ma proprio con tutte. Still a better love story than la tua.»

«Già, già...»

Sono disinteressato non al suo racconto, ma all'immagine che osservo riflessa nello specchio. La peluria sui pettorali mente, quella sotto al naso non convince. Dai bulbi cutanei entro domani emergerà un timido brufolo ed io continuerò a rimanere chi sono, immune allo scorrere del tempo nel corpo come nello spirito. La cosa mi terrorizza.

«Dai, lasciami scherzare» protesta il ragazzo, buffo nella sua canotta da cestista che per hobby difende invece l'area di rigore pur non avendone il fisico. «È da quando mi sono alzato che sto ascoltando una storia senza capo né coda, quando ti ho soltanto chiesto chi sia la tua ragazza.»

«Tranquillo, ci arriviamo» dico al suo riflesso.

«Ma è Virginia o non è Virginia?»

Un secondo per sciacquare la lametta, non mostrar lui i miei occhi e sperare che presto o tardi il tempo riprenderà a girare anche per me. «Certo che è Virginia...»

«Spoiler per il pubblico! Allora perché non me la fai vedere? Perché mi devi raccontare tutta 'sta tiritera? Avrai pure una foto, no?»

Quanta fretta, che fame di avere tutto subito senza assaporare niente. Perso in me stesso non gli rispondo, ed egli mi lancia la pallina sulla nuca per riacchiapparla al rimbalzo. Aggiunge: «Ti stai inventando una storia e basta, in verità ti piacciono gli uomini. Dillo, siamo nel duemilaventitré, non ti giudico.»

Sospirando, mi volto verso di lui e gli faccio cenno di alzarsi, di affiancarsi a me di fronte allo specchio. Sbuffando, mio fratello sta al gioco, sempre maneggiando la sua diabolica pallina. Un dito sul mento, il pollice che preme sulla mandibola: muovo il suo volto così che possa guardare entrambi i profili dei suoi quindici anni di incoscienza, in cui è arrivato a capire la stessa realtà che ho capito io, cioè quella che sta dietro alla sua moderata arroganza.

«Sii sincero, scimmietta» lo esorto diffidente. «Siamo tra uomini, fratelli, non c'è bisogno di dire cazzate. Che ne pensi del tuo aspetto?»

«Eh?»

«Dagghe***, non sei scemo. Rispondi alla domanda.»

Devo insistere prima che dica esattamente cosa già sapevo, che non è diverso da cosa valeva anche per me.

«Cazzo devo dirti? Non ho idea di come fare a piacermi, non credo nemmeno sia possibile. Cioè, non è che penso di essere brutto, ma non vedo niente di che, non so se mi segui. Una ragazza mi può dire... toh, che son carino, va bene, ma... ma...»

E cede. Esattamente come già sapevo e come ho ceduto io. Mollo la presa. «Non ti senti all'altezza della tua ultima fiamma, un po' perché è lei a non darti valore e un po' perché sei tu innanzitutto a non comprenderlo. Ma non ti preoccupare, è così che va per tutti. Virginia lo sa bene.»

Lui rifiuta lo specchio. Si gira per "sfidarmi". «Che intendi?»

Mi prendo l'asciugamano, tampono l'eterna giovinezza mia maledizione. «Che lo specchio non mente, è la rivelazione fatta a persona, o appunto a specchio» m'impappino.

«Sei strano forte...»

«L'ha detto anche lei un sacco di volte. Nello specchio ci guardiamo negli occhi, siamo consci di essere dei bugiardi e degli insicuri. Solo che io avevo qualche dubbio di tanto in tanto, non di certo una piena consapevolezza dei miei limiti per via del mio stile di vita: tanta musica, poche ragazze. E senza il confronto con le ragazze, per noi disgraziati maschibianchieterocis non c'è modo di andare oltre. Virginia doveva capitarmi più di Alice, perché...»

Perché non avevo la benché minima cognizione di cosa significasse l'annullamento istantaneo, ossia quell'improvvisa perdita di temperamento, coraggio, volontà, desiderio e cose da dire quando innanzi a noi maschietti splende colei che senza fare alcunché ci svela nella nostra inconsistenza più irrimediabile.

Le ricreazioni, noi che eravamo i padroni di casa in quanto studenti in sede, le trascorrevamo fuori dagli edifici. I più noiosi andavano nell'atrio a intrattenere conversazioni con Roccatagliata o ad abbuffarsi della spazzatura comprata alle macchinette, gli intrepidi si rifugiavano nel parcheggio degli scooter e fumavano, fumavano e fumavano, mentre io e i sobri sgranchivamo le gambe non distanti dalla porta d'ingresso.

C'era cemento a scuola, troppo grigio, sicuramente nelle pareti si celava dell'amianto mai estratto: non il massimo della gioia per gli ospiti dell'istituto gemellato, la cui sede poteva vantare la rigogliosità di un cortile verde e ampio a due quartieri di distanza – quaranta minuti a piedi dal nostro istituto. Probabile che non uscissero mai in strada per non mescolarsi a noialtri, o perché nella loro scuola di provenienza li avevano messi in guardia, chi lo sa; ahimè, Virginia la vedevo soltanto all'orario d'entrata e alla fine delle lezioni, che scendeva per le scale con una sua amica a passo incerto, diretta o verso la tiepida aula sotto la mia o verso l'unico autobus che dal centro attraversava la città fino ai confini montani della Val Polcevera, dove erano l'umidità e il freddo a regnare persino d'estate.

Me ne guardai bene di farmi scoprire da Desi, che alle mie supposte vicende "amorose" era interessata quanto una mamma. Non per vergogna, non per riservatezza, non lo so perché. Forse interiormente non volevo essere frainteso, dato che l'impatto che mi diede Virginia per la sua sola voce non aveva destato alcunché di travisabile nel mio cuore: sentivo solamente il bisogno, cordiale e onesto, di farle i complimenti per le sue doti.

Ma ancor meno sapevo il perché delle mie paralisi, dell'insolita paura di andare semplicemente a congratularmi. Non c'era il contesto, magari; o c'erano troppe persone nei dintorni a guardarmi, o mi spaventava l'idea di farmi avanti e interromperla nel suo dialogare con i compagni di classe nonostante non avessi mai provato tale inquietudine con nessuno.

A Desi, però, non gliela si poteva raccontare. Bastarono due occasioni per sgamarmi, entrambe lungo le scale al termine della giornata scolastica; entrambe con me a perdere il filo di qualsiasi discorso stessi facendo perché nel flusso di studenti in uscita vidi Virginia. Nel fiume umano, Desi notò che la mia attenzione fu calamitata da un indistinto qualcuno, e non dovette aspettare una terza volta per inchiodarmi: il giorno dopo, infatti, mi agguantò in corridoio e m'interrogò. Con l'impaccio di un novellino – guarda che fatica comprendersi quando si sta crescendo -, tentai di non compromettermi, ma fallii. Le dissi che avevo per puro caso rivisto quella misteriosa ragazza dalla voce divina, e lei arrossendo di simpatia completò il quadro e ne fu felice, perché forse ci saremmo lasciati alle spalle Alice e il sangue marcio.

Sì, mi travisò. «Vai a parlarle» m'incitò per tutta la mattina, durante le lezioni e la ricreazione. «Vai a parlarle, noi apprezziamo i complimenti.»

Non ci riuscivo, maledizione. E la cosa m'innervosiva. Così, l'indomani ancora, mi feci coraggio e ipotizzai che appunto la ricreazione fosse il momento ideale per espormi. Scendendo verso la sua aula, mi venne un magone privo di senso, poi un brivido di disprezzo nei miei stessi riguardi, poi il pavimento si sciolse e si fece liquido come le sabbie mobili quando giunsi alla porta e la vidi di spalle a guardare il porto fuori dalla finestra.

Giusto uno scorcio della sua gota, gli orecchini fini. Io, immobile, pensai nuovamente di fare brutta figura e che si sarebbe fatta un'immagine distorta di me, dunque il mio sguardo ricadde su una sua compagna. Questa, perplessa, mi osservò e mi fece balzare indietro nel corridoio, dove Desi, pugni sui fianchi e risata a stento trattenuta tra le labbra contratte, sperava in un finale migliore.

Lo specchio è brutalmente veritiero e gli occhi di una signorina non possono essere ingannati a lungo. «Da quando è che sei così timido?» chiese, e il mio borbottare fu una prova della sua ragione. «Andiamo in bagno, ci diamo una sistemata e sputiamo il rospo.»

Giorni di tentativi fallimentari, ogni sforzo di Desi fu vano. Fu in solitudine, scosso dalla mia titubanza, che trascorsi ore di silenzio a casa, guardando il mio riflesso e chiedendomi cosa stesse capitando. Ore, pomeriggi, settimane. E poiché nella mia normalità ero comunque un ragazzino, la fragile superbia non mi fece parlare né con mia madre né con mio padre, occupati a sfamare la peste che al tempo più che mangiare e cagare nel pannolino non riusciva a fare.

Malgrado ciò, mi convinsi di un'ipotesi: essendo pressoché ignaro delle donne, temevo la brutta figura e la ridicolizzazione di cui mai feci esperienza sul palco. Perché gli altri ci sapevano fare, gli altri sapevano cosa dire, gli altri sapevano cosa volevano; io, invece, credevo e basta, mentre appuravo che il talento di Virginia m'intimidiva e tra i due ero io quello ad essersi fatto un'immagine dell'altra. Non mi andava proprio giù, eppure non ero in grado di andarci contro.

Allora mi si presentarono davanti due strade. Un mese dopo, Desi fece mente locale e rammentò di avere già incontrato Virginia, quando erano bambine e s'erano fatte conoscenze in comune; parallelamente, ero troppo orgoglioso per accettare che la mia amica mi facesse largo andando lei per prima a parlare con la cantante per dirle che un carinissimo timidone volesse porgerle degli omaggi sentiti. E a mani in tasca, con un'incalcolata quantità di sigarette fumate nei giorni precedenti, salii la collina da casa mia verso il campetto, certo che avrei beccato quell'altro tra i suoi commilitoni.

«Tenebroso» fece Gianlu, fiero e leggero sulla sella del suo Runner, «come te la passi?»

Agitato e imbarazzato, guardai l'asfalto. «Bene, circa. Devo chiederti un favore, ma noi due da soli, se possibile.»

All'ululare goliardico dei suoi amici, Gianlu non acconsentì per principio, almeno finché non sottolineai il "per favore". Andammo dietro a un palazzo. «Che ti serve?» chiese lui, il meno indicato e al contempo il più esperto di tutti.

Sospirai. Non c'era altro modo. «M'insegni a parlare con le ragazze?»


*Lo scambio di battute tra i due è una citazione al brano Il testamento di Tito di Fabrizio de André.

**Il fratello intende "pomiciare", anche se in genovese becciare corrisponde a "fare sesso".

***Esortazione in genovese, significa "Dacci" come a intendere "Avanti", "Suvvia".

Spazio autore

Beh, è pur sempre un ragazzino. L'aveva detto all'inizio, gli sarebbe piaciuto avere la parlantina di suo fratello. E in fondo lo sapete anche voi gioie come gira il mondo, solo che talvolta non lo volete riconoscere: anche noi abbiamo dei muri, e troppo spesso non li capiamo.

Nella fase adolescenziale, quei muri possono risultare invalicabili persino per il più spavaldo, motivo per il quale tendiamo a inventarci delle storie o a gonfiarne altre. È il bisogno di sicurezza e di approvazione a spingerci a farlo, specie perché (e qua sto per dire una cosa molto pericolosa) il metro di misura di noi MBEC (maschi bianchi etero cis) è l'altro sesso, ciò che ci combiniamo e ciò che pensano di noi.

Poiché l'istinto naturale è chiaro più delle spiegazioni che sappiamo darci in merito, la competizione tra maschi in quell'età non ha ragion d'essere: per pura biologia la femmina giovane è tendenzialmente attratta dal maschio più anziano e viceversa - spiegazione sessuale alle scelte Di Caprio, almeno nello spettro della legalità -, dunque la lotta è in realtà una rivelazione/ammissione di senso di inferiorità, il quale è poi alla base dell'ipersessualità e dell'ingigantimento delle narrazioni. Ne consegue uno scannarsi tra coetanei che non porta a niente.

In parole più semplici, raccontiamo balle per piacervi, per avere una possibilità. Con gli occhi di un adulto, la cosa fa tenerezza e mi fornisce un espediente per continuare la storia, benché le scelte più innocenti possano condurre ai risultati più sbagliati. Anche queste sono lezioni, nel bene e nel male.

Allora che si fa? Si fa buon viso a cattivo gioco e ci si lascia aiutare da Desi o si fa i conti con la propria mascolinità e si va a fare gli allievi di Gianlu? Suggerimento: la svolta potrebbe sorprendervi.

PS. Chiedo scusa per essermi fatto aspettare, ma tra gli impegni, le corse, l'essermi già lanciato a imbastire una bozza della tesi di laurea e altro ho avuto più attimi di esitazione. Piano, ma andiamo avanti.

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