Serpenti e pubbliche relazioni

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La mattina trascorre entrando da un ufficio all'altro, mentre papà mi presenta ai suoi colleghi e io regalo convenevoli di ogni sorta, ammicco, sorrido, evito risposte troppo personali.

Sono curiosi e mi chiedono del cognome che ho avuto per anni, Mycroft ammette che è quello di mia madre: Sinclair. Non evito di rispondere alle loro domande, ma glisso quando mi chiedono dell'orfanotrofio. Anche papà cela un certo imbarazzo.

Mi sento un perfetto fenomeno da baraccone, uno dei suoi colleghi mi chiede del mio buffo soprannome e anche se sono irritato da queste ingerenze, rispondo con gentilezza.

"Haycok mi è stato assegnato all'istituto per non perdere tempo, vista la lunghezza del mio altisonante nome." Rivolgo un'occhiata torva verso papà che ci mette una pezza.

"Sherrinford è il nome del primo avo degli Holmes." Sorride, gli occhi lucenti quasi orgogliosi, mentre io mi sento fuori posto e vorrei ucciderlo per come mi sottopone a quella recita: Il primo Holmes assassinato dal figlio.

Quando siamo lontani da occhi indiscreti gli sussurro all'orecchio. "Perché io non lo sapevo il motivo di questo nome? Ti costava troppo dirmelo?" Ha un moto di stizza mentre mi spinge verso altri colleghi.

"Te lo spiegherò a tempo debito. Comunque sappi che non è dovuto al caso." Salutiamo altra gente che ci passa vicina, lo sento sospirare e mi placo avvertendo la sua sofferenza. Le nostre braccia si sfiorano come se cercassimo entrambi sostegno.

Mycroft è attento, non mi lascia da solo, evita accuratamente spiegazioni sulla mia salute malferma.

Se sgarro interviene, mi sostiene sollecito, dove manco di parola, lui completa il discorso.

Anthea, come sempre rimane appartata, ma è costantemente in allarme, pronta a intervenire.

Cerco di dimostrare buona parte della mia educazione sforzandomi di sorridere e di essere educato.

Mycroft è a suo agio o almeno lo maschera bene, mi rendo conto che il suo lavoro è d'intelligence, con molte responsabilità e con tutti i pericoli annessi.

Sudo e il colletto della camicia è inzuppato, la fatica di fingere è stressante. Dribblo domande di qualsiasi tipo. I suoi collaboratori sono tutti gentili, ma in alcuni di loro avverto una sottile ostilità. Giurerei che se Mycroft si trovasse in difficoltà potrebbe contare solo sull'aiuto della sua famiglia.

Uno di loro, si dimostra troppo interessato e ci studia contrariato dalla mia apparizione pubblica, sento i suoi occhi scuri che ci osservano malevoli.

È elegante, ma il completo tre pezzi di marca non gli rende la classe di papà. È un po' in sovrappeso e probabilmente è a dieta, la giacca non aderisce perfettamente al suo corpo che cambia.

Si avvicina e vedo Mycroft irrigidirsi, non vuole ma è costretto a presentarmelo.

"Sir Henry Auberton, degli affari interni, collaboratore di Alicia." Il volto di Mycroft sembra scolpito nella pietra, l'altro respira contratto fatica a mascherare una sottile acredine.

Quando gli stringo la mano ho l'impressione di sentire la pelle di un viscido serpente.

"Piacere giovane Holmes, è una sorpresa notevole sapere che Mycroft ora ha un erede a tutti gli effetti." Ha una voce rozza poco piacevole, strizza gli occhi scuri, si rivolge a papà. "Sarai orgoglioso di essere un novello padre." Noto la mascella contratta di Mycroft, gli escono due parole appena. "Certo Henry, lo sono. Stanne certo."

"Spero che le tue aspettative siano ricompensate, Holmes." Fa un ghigno e mostra dei denti irregolari.

Non riesco a rispondere a quella frase offensiva ma lo fa papà. "Non ti preoccupare Henry, quando sarà il momento lo vedrai." Mi trascina via, sento le sue dita affondare duramente nel braccio.

"Spero che non siano tutti così i tuoi amici! È viscido e ostile!" Gli sussurro notando il suo disappunto.

"Non preoccuparti, stanne fuori, sii solo gentile." Camminiamo affiancati, inclino la testa di lato e lo osservo, è preoccupato, lo percepisco dai suoi movimenti troppo studiati, cerca di mascherare la rabbia e mi convinco che papà lo tema.

"Mi sembra un tipo pericoloso, non come gli altri qui dentro che ti rispettano. Cos'ha contro di te?"

Stringe le labbra, girandosi lentamente. "Nulla, meno ne sai meglio è. L'hai visto un paio di minuti soltanto e lo giudichi ostile?"

Ridacchio vedendo il suo volto tra l'allibito e il seccato. "E mi basta. Vedo le cose come te e come Sherlock. Sono un Holmes, o no?"

"Presuntuoso come lo zio, di certo." Sorride falsamente a tutti i presenti, io faccio lo stesso mantenendo un certo distacco.

"Vuoi fare il saccente? So chi mi gira intorno e il grado di fiducia che devo accordargli." Me lo sibila sottovoce, sento il collo della camicia sempre più bagnato e stretto.

"Allora stagli lontano, la fiducia con quel tipo è pari allo zero."

Mi fissa sorpreso, sa che ho ragione. "Vedo che ti sei impuntato su di lui. Beh, ti confermo che non è un partner affidabile e mi procura qualche preoccupazione."

Passo un dito fra la pelle sudata del collo e la stoffa, cercando di riprendere fiato. Un gesto che non gli sfugge.

"Tranquillo Sherrinford tra poco è finita." La voce è morbida, mentre riprende l'aspetto rigido e compassato per i colleghi.

Anthea appoggiata alla parete osserva tutto con attenzione, ma non si avvicina. Restare in quella stanza, dove la parola amicizia non è contemplata, mi risulta sempre più difficile, non mi capacito di come Mycroft possa sacrificarsi per la Governance.

Vorrei lavare via la sensazione di disagio che provo. Meglio i bulli ignoranti dell'istituto che questa vita di apparenza e di vestiti costosi.

Sono sudato e stanco di fare il burattino, Anthea che mi conosce, interviene e si avvicina a noi due con una scusa.

"Mycroft abbiamo un appuntamento, forse è meglio avviarsi." Lui aggrotta la fronte e gira lo sguardo verso di me, capisce al volo e ci congediamo.

"Stai bene?" Mormora lei sollecita e preoccupata.

"Stavo meglio prima." Le rispondo stancamente incapace di mascherare la delusione per quella recita.

Percorriamo nuovamente il corridoio con lui in testa e io dietro. Anthea al mio fianco appoggia la mano sulla mia schiena e la accarezza. Un gesto gentile che mi dà la forza di sopportare il resto della giornata.

Appena dentro, al riparo da occhi indiscreti, mi lascio letteralmente cadere sulla poltrona.

Mycroft manda Anthea a prendere del tè, ma evita gesti premurosi e non si avvicina nemmeno.

Sbuffo avvilito e appoggio la testa sullo schienale imbottito cercando di rilassarmi mentre chiudo gli occhi.

Devo riordinare la mia mente, capire come muovermi nel mondo contorto di Mycroft.

Allungo le gambe per sciogliere la tensione. Sento il respiro pesante di papà che è ancora in piedi al centro della stanza.

"Stai bene figliolo? Hai le tue pillole?" Annuisco e lo tranquillizzo. "Va tutto bene, sono solo un po' stanco."

La sua voce si fa gentile. "Mi dispiace, Sherrinford, ma è stato necessario. Dovevo mettere in chiaro che ci sei e che non tollererò ingerenze." Lo sento allontanarsi e tirare la poltrona dietro la scrivania.

Sollevo il capo e lo osservo. "Solo ingerenze, papà? Certe facce dicevano il contrario."

Sono sfinito e questo mi rende instabile. "Tu che sai sempre tutto, spiegami perché lì dentro c'era qualcuno che avrebbe voluto vederci morti entrambi."

"Non fare il melodrammatico!" Sbuffa. "Sono divergenze di lavoro."

Smetto di parlare e torno a guardare il soffitto, lo sento trafficare sul tavolo, rovescia qualcosa, brontola tradendo il malumore. Una sottile apprensione mi prende lo stomaco, non è un uomo amato anzi alcuni lo temono. Non ha molti amici su cui contare.

Mi giro a guardare il suo volto e capire quello che pensa. "Ma come fai a sopportare quelle persone false! Non rimarrei nemmeno un minuto in una stanza da solo con loro."

Mugugna, lo sa perfettamente che è vero.

"È il mio lavoro e so come muovermi." Rimarca deciso ma si aspetta un altro mio rimbrotto.

"Sei veramente convinto di quello che dici? Ti piace davvero condividere la tua vita con quella gente?

"So il prezzo che costa! Ti ho detto che è stata una scelta." La sua voce è aspra, per nulla intimorita.

"Se eri votato alla solitudine, allora sì. Di conseguenza stai attento a tenere tutti distanti, me compreso." Lo accuso ancora, ma senza forza, ormai rassegnato alla sua ostinazione.

"Non puoi capire ragazzo, arrogante come ti dimostri!"

È seduto rigidamente sulla poltrona di pelle liscia, quella costosa che si è meritato per la sua appartenenza allo stato, a cui ha votato tutta la sua vita e dove io non posso entrare. Capisco che sono la scheggia impazzita che ha cambiato la sua esistenza e che fatica ad accettare. Mi sento sconfitto e ammetto che ha ragione: la mia arroganza è nella ricerca di quell'amore che non mi può dare.

"È un bene che tu non abbia mai cercato una famiglia, sono il tuo unico errore, un caso pietoso a cui non eri preparato." La mia voce si incrina, afferro saldamente i braccioli della poltrona, sono in pelle liscia e fredda come il mio cuore in quel momento.

Ha un attimo d'imbarazzo non è da lui mostrare un nervo scoperto, e fatica a rispondermi.

"Forse non sono come pensi, come tutti pensano che io sia."

Inclina il capo di lato, lo sguardo dilatato, sembra impercettibilmente tremare.

"Non sono sempre stato così! Sono stato anch'io un ragazzo come te, pieno di incertezze."

Ed è uno squarcio, un'ammissione che mi blocca e mi dà speranza, forse un margine di convivenza pacifica c'è.

Ma l'abbandono che ho subìto è reale come quegli anni di dolore vissuti da solo. Non ho chiesto lui come padre, ma c'è, ed è lì, con tutti i difetti, le manie, il controllo. Eppure non riesco ad accettarlo, non mi sento di perdonarlo.

Sappiamo perfettamente che ci stiamo studiando, che ci avviciniamo e allontaniamo, che è difficile creare un rapporto di fiducia con un uomo che non sapeva di essere padre e io che sbando continuamente tra amore e odio nei suoi confronti.

Le mie paranoie e le sue freddezze, il fuoco e il gelo.

Ci fissiamo a vicenda, muti, arroccati nelle nostre fortezze fragili come la sabbia, lui distoglie lo sguardo, tronca ogni apertura, apre il portatile e io mi abbandono spossato e vinto.

"Papà voglio andare a casa." Mormoro quasi implorando, logorato per quel gesto che vorrei gli venisse spontaneo, quella gentilezza di un padre che sarebbe la benvenuta dopo la giornata stressante a cui mi ha obbligato.

Ma lui è Mycroft Holmes, l'uomo freddo e privo del cuore. Percepisce la mia difficoltà, ma si barrica dietro al computer alzando un muro invalicabile contro le emozioni.

Così infierisco ancora, lo voglio umiliare in un contorto desiderio di vederlo reagire, per capire fino a dove posso arrivare.

"Quanto è prezioso quel portatile da cui non ti stacchi mai? Lo sai che è un pericolo costante che ti porti appresso, vero? La trovo una mossa estremamente stupida."

Mi risponde piccato, mentre continua a scrivere. "Ho le mie precauzioni, mi credi un idiota?"

Reagisco malamente. "Sì, padre, a volte sì, come racchiudere tutti i tuoi stramaledetti segreti là dentro." Punto la mano verso di lui e il suo portatile.

"Sei strafottente Sherrinford e stupido, ma reciti bene la tua parte, sei stato un ottimo attore poco fa." Mi ringhia contro, ha visto un lato di me che non si aspettava.

Mi raddrizzo sulla poltrona e lo osservo ironico.

"Tu non sai nulla di me. Ma di una cosa stai certo, se fossi in condizioni migliori me ne andrei, ma ho bisogno di aiuto e della famiglia." Glielo butto in faccia rabbioso. "Non certo di te! Che non ne volevi alcuna e che non fai nulla per starmi vicino."

Chiude con poca grazia il laptop. Si appoggia alla poltrona, gli occhi freddi e scuri, la fronte corrugata, ansima un paio di volte. Si passa la mano stancamente sulla fronte tremando, ma si riprende subito.

"Ora basta Sherrinford, va a casa. Non riesco a comprenderti né a giustificarti. Lo so che sei arrabbiato per quello che hai passato, ma hai oltrepassato i limiti, non fai che offendermi. Sei pieno di livore e io sono stanco di accollarmi tutte le colpe, comprese quella della tua povera madre." Ha la voce rotta. "È vero che non so nulla di te, ma tu mi hai già condannato. Forse è meglio allontanarci per un po'."

Mi sento soffocare, lui non fa nulla per riparare al dolore di aver perso la famiglia, per ricordare i pochi anni felici vissuti con mia madre. Mi mordo le labbra mentre abbasso la testa dispiaciuto e realizzo che non sa nulla di sentimenti e col tempo li ha banditi.

Dentro al cuore so di volergli bene e mi preoccupo per vederlo così, ma non riesco a mettere fine a questa faida assurda e anch'io non parlo, non mi chiarisco e accetto questa nuova distanza tra noi.

Entra Anthea, ci trova come due eserciti schierati che hanno perso entrambi la battaglia.

Appoggia il vassoio, mi lancia uno sguardo frustrato, ci invita a bere il tè.

Avviamo una specie di tregua, sorseggiamo silenziosi la bevanda calda, studiandoci.

Mycroft è arrivato al limite, fino a dove l'ho spinto io, ma rimane fermo nelle sue posizioni.

"Anthea vorrei andare a casa. Sono stanco." Mi alzo sconfortato barcollando e lei è sollecita a reggermi.

Ma non lui. Lui non muove un solo passo.

Lasciamo la stanza senza salutarci e sento un dolore che mi rode l'anima. Papà è l'unica persona a cui tengo, eppure in un contorto desiderio di averlo tutto per me lo metto all'angolo e provo a farmi odiare, perché sia lui che mi insegue e che senta il bisogno impellente di stare con me.

Finalmente siamo all'esterno, respiro a pieni polmoni l'aria fresca. Anthea mi segue taciturna. Entriamo in auto, guardo dal finestrino e piango in silenzio: non sono un bravo ragazzo, non sono all'altezza, non sono un figlio, non sono in salute. Avrei dovuto rimanere da solo, come era sempre stato. 

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