Capitolo Cinque

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Tornai a casa un giorno o forse due dopo essermi svegliata non ricordando nulla di quei giorni.

L'ospedale mi aveva sempre fatto quell'effetto.
Era sempre riuscito a farmi dimenticare le cose.
Passare tutti quei giorni lì dentro, era come rivivere sempre lo stesso.
Il primo.
Una conseguenza di azioni sempre uguali e agli stessi orari.

«Ehi, ci sei?»

Mia madre mi guardava con occhi dolci e pieni di aspettativa.
Anni di esperienza nel capire le sue espressioni facciali come quella che aveva assunto in quel momento.
Ne aveva tante e tutte buffe, ma aveva messo sù quella espansiva e pronta a ricevere notizie, dedicata al farmi parlare e a tirare fuori mesi di oppressione.

La guardai mentre mi spostavo meglio sul divano di pelle e mi avvolgevo nella coperta di pile, sempre posta sul bracciolo.

La casa dei miei genitori era piccola e accogliente. Avevo passato la mia adolescenza in quelle mura, ma ad oggi mi risultava troppo piccola rispetto al mio appartamento a New York.

Mi sentivo annegare o forse lo stavo facendo davvero.
Vedevo la donna che mi aveva fatto nascere, seduta al tavolo a girare il tè caldo appena fatto.
La vedevo in carne e ossa, sentivo la sua mente girare, la sua apprensione, ma non del tutto.
Ero io che non c'ero, né fisicamente né mentalmente.

«Sì, sì, stavo pensando...» dissi, sfiorandomi la testa con una mano.

«A cosa? A Jamie?»

La vidi tentennare, come se fosse indecisa, se chiedermi di lui o meno.

«Mamma, cosa pensi di me?»

Spalancò gli occhi presa alla sprovvista lasciando tintinnare il cucchiaino nella tazza.
Era paralizzata.
Come se non sapesse cosa rispondere.

«Cosa dovrei pensare?»

«Guardami»

Solo a me stessa era palese?

«Cosa dovrei dirti?»

La vidi osservarmi, ma incapace di dire quello che stava pensando.

Stavo diventando pazza e avevo bisogno di aiuto in tutti i sensi, ma lei non riusciva a dirlo.

Lo squillo del mio telefono fu la tomba di quella piccola chiacchierata.

Con la scusa di lasciarmi parlare senza disturbare, trovò il motivo perfetto per ritirarsi insieme al suo tè nella sua stanza, lasciandomi sola.

La vidi andare via velocemente, mentre prendevo il telefono controvoglia.
Scossi la testa amareggiata e prima di rispondere però, mi assicurai che non fosse un numero privato.

Il nome di Stecy, la mia assistente, lampeggiava sul display, creando uno stato di ansia totale.
Se mi stava chiamando, voleva dire solo una cosa... dovevo tornare a New York.

«Ehi Cy? Devo tornare?» risposi immediatamente.

«Ehi ragazza, non sai quanto volevo evitare questa chiamata... Devi.»

«Cosa succede?»

«Ricordi la sfilata da organizzare a Seattle?»

«Quella della settimana prossima? O quella no profit natalizia...?»

«No, quella no profit natalizia è in fase di organizzazione, mancano gli ultimi dettagli, ma va tutta alla grande. Quella della settimana prossima invece...» chiusi il pollice e l'indice ai lati del mio naso, sospirando.

Fantastico.

«Cosa succede?»

«Oh, nulla d'importante... Modelle che non si trovano e... siamo senza location», disse Stecy in fretta senza riprendere nemmeno il fiato.

«COSA?» mi alzai talmente in fretta che inciampai nella coperta e caddi come un sacco di patate sbattendo il sedere.

«Honey, tutto ok? Honey?»

«Sì sì, tutto ok, sono solo caduta, ma tranquilla. Dicevi?»

«Senza modelle e senza location»

«Ma era tutto pronto! Avevo organizzato tutto mesi fa... come è possibile?»

«Non so cosa sia successo, ma l'agenzia delle modelle mi ha chiamato questa mattina dicendo che le sue modelle non erano disponibili... per la location lo so già da cinque giorni, ma pensavo di risolvere senza il tuo aiuto.»

«Cazzo»

Ero brava nel mio lavoro, molto.
Riuscivo a risolvere problemi in meno tempo degli altri, ero talmente determinata e caparbia nelle cose che amavo, da non accettare mai un no.

Mi risedetti sul divano stanca e spossata, non volevo tornare a New York, ma il destino a volte era così stronzo con me.

«Honey? Ci sei?»

«Sì sì, sono qui, arrivo domani.»

«Davvero? Fantastico, ti amo! Cioè volevo dire... grazie!»

«Tranquilla. A domani.» dissi ridendo della sua spontaneità.

Riagganciai e dopo aver prenotato l'aereo, mi diressi di corsa a rimettere in valigia quelle poche cose che avevo tirato fuori.

«Vai via?» mia madre bussò alla porta della mia camera, mentre chiudevo l'ultima valigia.

«Sì, domani mattina ho l'aereo, se vi va, ceniamo insieme con papà, Lion... insomma tutti.»

«Ok, chiamo tuo fratello.» disse e se ne andò affranta e con gli occhi lucidi, consapevole di ciò che avrei trovato di nuovo lì.

Mi allungai sul letto, avvolta dai miei pensieri più torridi. Ero sempre stata bene in questa stanza; la città di Stowe mi aveva regalato amore e amicizia, un posto chiamato casa. Ma il mio vero angolo di paradiso era questa umile e spoglia camera.

Avevo portato con me nella Grande Mela tutti i ricordi e le foto che avevo qui, ma il resto era rimasto intatto.
Le pareti rosa, le tende bianche con dei fiori colorati.
La mia scrivania con le mille penne con i pon pon nel portapenne, i quaderni e i libri delle scuole che avevo frequentato, messi in ordine nei ripiani.
Il computer fisso, vecchio anni luce.
La mia prima trousse, di quando ero ragazzina, regalata da mamma per i miei dieci anni.

Tutto uguale.
Come se il tempo non fosse mai trascorso, come se la vita in questa stanza si fosse fermata al giorno della mia partenza tanti anni fa.

Esausta dai miei mille ricordi di una vita felice, decisi di farmi una doccia veloce prima dell'arrivo di Lion e della sua famiglia.

Mentre ero impegnata ad asciugarmi i capelli, immersa nei miei mille ragionamenti contorti e confusi, passetti piccoli e leggeri di una bimba mi avvisarono che erano arrivati gli ospiti, o meglio che Emy era arrivata.

Un uragano, la bimba più bella del mondo piombò in camera mia con un sorriso a quindici denti, più o meno.

«Ziaaaaa!»

«Amore mio», riuscii a spegnere il phon,ma mi cadde di mano nel momento in cui Emy si lanciò verso di me.

«Ma quanto sei diventata bella? E questa coroncina?»

«Mamma mi ha detto che sono una principessa, quindi avevo bisogno, assolutamente, di una corona.»

«Ha proprio ragione, e dov'è ora?»

«È di là con i nonni e papà.»

«Ti va di accompagnarmi a salutarli?»

«Sì, zia, dai su che ho una fame!» disse prendendomi per mano e portandomi in cucina.

«Ecco la ziaaaaaa.»

Una volta arrivati in cucina, trovammo tutti riuniti intorno alla penisola.

Mamma stava cucinando mentre tutti gli altri bevevano un drink, ignari della mia decisione di tornare a New York.

«Finalmente ci rivediamo!» il secondo tornado di casa mi avvolse nelle sue braccia lunghe e paffutelle.
Courtney era sempre stata una bella donna, ma dopo Emy con quei chili in più era ancora più bella, morbida e coccolona.

«Ciao Courty, è bello rivederti»

«Anche per me tesoro, mi sei mancata.» disse stringendomi ancora una volta.

«Anche tu, ma porto cattive notizie.. devo dirvi una cosa prima di sederci a cena, altrimenti scoppio.» guardai tutti, uno per uno, mentre prendevo in braccio Emy, già con il faccino triste.

Mamma abbassò la testa, consapevole già del mio ritorno.

«Che succede?» disse papà allarmato.

«Devo tornare a New York, domani.» guardai subito Lion con uno sguardo affranto.

Era deciso ormai, il lavoro mi chiamava e lui doveva capire.
Era la mia passione e non potevo dire di no, non potevo farmi portare via anche l'unica fonte di soddisfazioni.

«Scusate, esco un attimo.»

Vidi mio fratello uscire in veranda in modo trafelato, prendere il telefono e avviare una chiamata.
Volevo spiegargli il motivo del mio ritorno in città, dirgli di non preoccuparsi, che per qualsiasi cosa lo avrei chiamato. Che tutto era stata una sorpresa anche per me.

Ma mi bloccai all'istante.

Era strano, più del solito, agitato.
Lo conoscevo abbastanza bene da poter dire che non era Lion.
Sospettavo stesse facendo qualcosa che non doveva, i suoi movimenti erano studiati, gli occhi si muovevano in più direzioni, ma soprattutto si guardava sempre le spalle.

Decisi di posizionarmi dietro la porta finestra.
Mentre guardava intorno con fare guardingo, volse la testa verso il giardino e dopo un sospiro poggiò il cellulare vicino all'orecchio.

«Pronto?»

«Sì, riparte per New York domani.»

«Hai già tutto in mano?»

«Sei pronto? Mi raccomando, non lasciare tracce.»

«Aspetto tue notizie.»

Non riuscii a sentire il destinatario rispondere, troppo rumore che ci circondava, ma era tutto così strano.

Mio fratello chiuse la chiamata e tornò di nuovo in sala da pranzo, io feci in tempo a nascondermi tra la credenza e lo stipite della porta della cucina.
Lo vidi passare consapevole che ero salva, non mi aveva visto e potevo uscire.

Ma rimasi lì, per un tempo a me sconosciuto, appoggiata allo stipite della porta con mani tremanti.

Non lasciare tracce.

Con chi cazzo stava parlando?

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