9. Per non dimenticare

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Lorenzo

Davanti a noi, la folla esplode in un applauso fragoroso. Posso vedere i volti dei nostri amici, della nostra squadra, tutti uniti in un'esplosione di felicità. Le bandiere sventolano, i cori si alzano, e per un momento, il mondo sembra fermarsi.
Fabio mi indica il tabellone dei tempi. Il nostro nome è in cima, un trionfo che sembra quasi surreale.

Improvvisamente, tutto cambia. Siamo in auto, il mondo si capovolge, il cielo e la terra si mescolano in un vortice di colori e suoni. Sento il metallo che si contorce, il vetro che si frantuma. Il dolore è acuto, ma è il silenzio che segue a essere insopportabile.

『••✎••』

Mi sveglio di colpo, il cuore che batte all'impazzata. Sono sudato, il respiro affannoso che cerco di regolare. Sono una settimana che rivivo quell'incubo, sette notti che mi sveglio sperando che sia stato solo un sogno. Ma la realtà è sempre lì, pronta a ricordarmi la mia colpa.

Prendo il cellulare, scorro nella rubrica e chiamo un contatto che non utilizzavo da non so quanto tempo.

«Lorenzo, quanto tempo. Se mi chiami sono brutte notizie...»

«Sono ricominciati.» mi limito a farfugliare.

«Da quanto?»

«Una settimana.»

«Hai gareggiato o cosa hai combinato?»

«No, ma ho dovuto fare una corsa particolare... Stefano puoi darmi qualcosa? Devo concentrarmi e lavorare» taglio corto, lo sapevo che sarebbe andata a finire così.

Sento un sospiro e per alcuni secondi la persona dall'altra parte del telefono resta in silenzio.

«Non è questo il modo, lo sai. Devi riniziare la terapia.»

«Mi serve qualcosa, oggi! Che razza di psichiatra sei?»

«Posso darti qualcosa per dormire... Non c'è un farmaco che faccia dimenticare o cancellare i sensi di colpa. Vieni nel mio studio e ne parliamo.»

Sto in silenzio elaborando la sua risposta: severa, ma giusta. Per un attimo mi torna in mente il viso di Fabio, mentre mi sorride amichevolmente, poi però tutto lascia spazio alla smorfia di dolore e al suo viso sanguinante.

Devo uscire da qui, subito!

Chiudo la chiamata senza neanche rispondere. Non posso riportare alla mente certi ricordi, è già troppo che sopporto gli incubi e il senso di colpa.

『••✎••』

Dopo qualche ora nel grande anfiteatro del Santa Monica, siedo al centro del palco, osservando distrattamente la scena davanti a me. La luce del sole filtra attraverso le ampie finestre, illuminando i volti dei genitori e dei professori seduti in attesa.

Davanti a tutti, con un sorriso sicuro e una cartellina tra le mani, c'è Maristella. Con voce chiara e appassionata, inizia a presentare il progetto "Scuola Estate", l'iniziativa pensata per offrire agli studenti un' estate ricca di attività educative e ricreative.

Peccato che vorrei essere altrove. Sicuramente a bere da qualche parte.

«Buongiorno a tutti,» inizia, guardando il pubblico con occhi brillanti. «Il progetto 'Scuola Estate' è nato dal desiderio di creare un ambiente stimolante e divertente per i nostri studenti anche durante le vacanze estive. Abbiamo pianificato una serie di laboratori scientifici, escursioni naturalistiche e attività sportive che non solo arricchiranno le loro conoscenze, ma li aiuteranno anche a sviluppare nuove competenze.»

Il mio viso è impassibile, ma non perché in questo momento non la trovi brillante, la verità è che non vedo l'ora che tutto finisca per andare via. Lei ogni tanto rivolge lo sguardo nella mia direzione ma non trova nulla. Né approvazione, né entusiasmo che invece si diffondono tra i presenti. Maristella continua a spiegare i dettagli del progetto, illustrando con diapositive colorate le varie attività previste. Ogni tanto, si ferma per rispondere alle domande dei genitori, mostrando una profonda conoscenza e una passione contagiosa per il suo lavoro.

Quando conclude la sua presentazione con un caloroso applauso del pubblico, mi alzo in piedi, faccio un elogio di circostanza e mi metto in disparte, mentre lei si prende tutti i meriti.

La osservo mentre parla con i genitori degli alunni e i nostri colleghi. Il suo sorriso è radioso, quasi contagioso, e sembra mettere tutti a loro agio. Le sue parole sono gentili, il tono caldo e accogliente. È come se avesse una luce speciale che illumina la stanza, attirando l'attenzione di chiunque le stia intorno.

Tutti tranne la mia. Neanche la sua luce riesce a scacciare l'oscurità che oggi mi perseguita.

Eppure, quando i nostri sguardi si incrociano, il suo sorriso si spegne. C'è una strana scintilla nei suoi occhi, un'ombra che non riesco a decifrare. Con me, è sempre così. La sua diffidenza nei miei confronti è palese, sinceramente non mi impegno di dimostrarle il contrario.
Pensi ciò che vuole.

A me non interessa.

Mi allontano dalla riunione, cercando di sfuggire all'opprimente atmosfera della sala. Ogni parola, ogni sguardo mi pesa come un macigno. Ho bisogno di aria, di spazio. Mi dirigo verso il mio studio, sperando di trovare un momento di pace e bere la mia vodka in silenzio.

Ma appena giro l'angolo, mi trovo faccia a faccia con il presidente del consiglio, Alviero. Il suo sguardo è penetrante, come se potesse vedere attraverso di me.
«Tutto bene?» mi chiede, ma so che non è una domanda di circostanza. C'è una preoccupazione genuina nei suoi occhi. La stessa di quel giorno, quando mi aveva trascinato fuori dai rottami.

Cerco di mostrare indifferenza, ma è un tentativo vano. «Sì, tutto bene,» rispondo, ma la mia voce tradisce la mia sofferenza. Lui non si lascia ingannare.
«Non sembra,» dice, avvicinandosi di un passo.
«Hai lo stesso sguardo di allora.»

Il nodo alla gola si stringe. Non posso più nascondere la verità.
«Dovevi soccorrere prima lui.» sussurro, senza distogliere lo sguardo.
«Lo sapevo! Lorenzo, devi andare avanti!»

«Perché non hai soccorso prima lui?» continuo ripensando a quel giorno, io sono qui, mente lui...

Il presidente del consiglio posa una mano sulla mia spalla.
«Era già troppo tardi, mentre tu eri ancora vivo,» dice con voce calma. «Non puoi portare il peso della sua morte. Non è colpa tua!»

«E invece sì!» sbraito, facendo qualche passo indietro.

Lui mi osserva per un momento, poi parla lentamente.
«Avete subìto un attentato e tu eri il bersaglio, sei vivo per miracolo! E devi vivere, lo devi fare per lui.» dice infine.

«Pensavo fossi un cardiologo, non uno strizzacervelli!» ribatto canzonandolo.
Il rapporto tra me e lui è così, ci urliamo a vicenda, ma alla fine nessuno dei due si arrabbia sul serio.

«Hai chiamato Stefano? Perché non sei rimasto a casa? Non puoi lavorare così» continua senza darmi pace.

«Tu e Stefano mi ripetete sempre le solite cazzate da quel giorno, basta!» gli volto le spalle, aumento il passo e vado dritto nel mio studio senza voltarmi.
Stop, ho bisogno di silenzio.

Mentre chiudo la porta alle mie spalle, sento il peso del senso di colpa schiacciarmi ancora di più.
Mi siedo alla mia scrivania, non posso permettermi di mostrare a nessuno la mia sofferenza. È come se fossi in una bolla. Le luci fluorescenti dell'ufficio sembrano più intense oggi, quasi accecanti. Mi massaggio le tempie, cercando di scacciare il mal di testa che pulsa incessantemente.

Non riesco a concentrarmi. Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo l'incidente. La curva stretta, il suono stridente dei freni, il ribaltamento. E poi il silenzio. Un silenzio che urla più forte di qualsiasi rumore.

Ricordo il volto di Fabio, il suo sorriso prima della gara, la sua voce calma che mi dava istruzioni. E poi, il suo corpo immobile tra le lamiere. Un nodo mi stringe la gola e sento le vertigini aumentare.

Apro gli occhi di scatto, cercando di ancorarmi al presente. Ma è difficile. Ogni dettaglio dell'ufficio mi riporta a quel giorno. La sedia girevole che scricchiola sotto di me, il telefono che squilla incessantemente, tutto sembra un eco lontano.

Devo alzarmi, devo uscire da qui. Ma le gambe sembrano di piombo. Respiro profondamente, cercando di calmarmi.
«Non ora,» mi dico. «Non oggi.» Ma so che non sarà così facile.
La sofferenza è un peso che porto dentro, ma almeno qui, nel mio rifugio, posso permettermi di essere vulnerabile.

Mi alzo e riempio il bicchiere con della vodka, qualcuno bussa incessantemente.
E ora chi cazzo è?

Senza neanche aspettare il mio consenso, la porta di apre.

Maristella si avvicina alla mia scrivania con una strana espressione sul volto.
«Dirigente, possiamo parlare un attimo?» mi chiede, la sua voce è gentile ma ferma.

No.

Sospiro, già immaginando dove arriverà questa conversazione.

«Faccia veloce!» rispondo, cercando di mantenere la calma, ma soprattutto le distanze.

«Come sono andata? È scappato senza dire nulla...»

«Bene, ora può andare.» taglio corto senza neanche voltarmi.

Dopo alcuni secondi di silenzio, tanto che credo sia finalmente andata via, prosegue il suo interrogatorio.

«Ho notato che oggi qualcosa ti turba. Sei più distante, e volevo chiederti se avessi bisogno di qualcosa» dice, mi volto e il suo sguardo è investigatore, ma anche preoccupato. E ora perché mi dà del tu?

Sento un'ondata di frustrazione crescere dentro di me. La sua preoccupazione mi irrita. Mi ha sempre guardato con sospetto e disprezzo, e ora si comporta come se dovessimo diventare amici intimi?
«Professoressa Buongiorno, davvero crede che se avessi un qualche problema, lo direi proprio a lei? Non è sicuramente affar suo,» rispondo, cercando di mantenere il controllo.

Lei non si arrende. «Non posso ignorare quello che vedo.»

A questo punto, la mia pazienza si esaurisce. «E cosa vedi? Un mafioso? Un criminale? Ebbene sì, lo sono, ora sei contenta?»

«Non voglio giudicare, solo aiutarti...» farfuglia, io assottiglio lo sguardo... Che bugiarda!

«Non siamo niente e saremo sempre due estranei che lavorano nello stesso posto, questo devi mettertelo in testa!» alzo la voce, sentendo la tensione nelle mie parole e togliendo anche io ogni formalità. Magari così capisce di più...

Lei fa un passo indietro, sorpresa dalla mia reazione, poi però si ricompone, «Lorenzo, capisco che tu possa sentirti così, ma non saremo solo estranei. Passeremo gran parte delle nostre giornate insieme, condividendo sfide e successi. Non voglio invadere la tua privacy, ma credo che un po' di supporto reciproco possa fare la differenza.»

Mi rendo conto di aver esagerato, ma l'orgoglio mi impedisce di scusarmi. «Fuori!,» comando, più calmo ma ancora fermo. «Voglio stare solo!».

Lei annuisce lentamente, visibilmente ferita, e si allontana. Rimango così, in piedi, con un senso di colpa che inizia a insinuarsi. Ma non posso permettermi di mostrare debolezza. Non ora.

Ho già ucciso il mio migliore amico. Devo stare solo, questo è il mio posto.

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