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Il ronzio leggero del campanello mi riempì le orecchie. Sorrisi, consapevole di chi mi attendeva sull'uscio.
Diedi un'ultima mescolata al gustoso e denso impasto al cioccolato che lievitava davanti a me sul ripiano della cucina. Chiedendomi se spargerlo di una spruzzata di zucchero a velo.

Non avevo esitato ad assaggiare il dolce molteplici volte durante la semplice preparazione. Mi diressi pigramente verso la porta.

La spalancai.
Come mi aspettavo, fu Erika a pararsi dinanzi a me. SollevΓ² in aria una sottile busta in plastica bianca, semivuota.
Mi rivolse un'occhiata trionfante, scuotendola orgogliosa Β«Missione compiuta, capitano WilsonΒ».

Risi, scampanellante, del saluto militare che accompagnΓ² le sue parole. Poi stirai con le mie mani il grembiule grigio argento, che in realtΓ  apparteneva a mia madre.

Avevo le dita imbrattate di farina. Andava a ricoprire anche le braccia e i miei vestiti. Avrei potuto giurare che un po' di impasto si fosse incastrato in un ricciolo dietro l'orecchio.

Β«Ma Rose non Γ¨ l'unica che si salva quando la nave affonda?Β» Borbottai, fingendomi burbera. Anche lei sbuffΓ².
Trattenne a stento risa caparbie, specchio delle mie.

Β«Vantati ancheΒ» ironizzΓ², con un gesto stizzito della mano. L'aria di sfida rovinata da un complice occhiolino. Β«Ho sempre pensato che su quel coso ci sarebbe potuto stare anche Jack, stringendosi un po'Β».

A quel punto avevamo definitivamente perso il controllo sulla nostra battuta. Non ce ne facemmo cruccio.
Eravamo liete di avere qualche, seppur sciocco, motivo per concederci un fuggente attimo di tranquillitΓ .
Ormai costantemente cullate dal feroce dondolio di un mare in tempesta.

Ci dirigemmo in cucina continuando quel pacato punzecchiarci.
Si dimostrΓ² molto interessata alla storia delle pareti gialle.

Erika non esitΓ² a posare sul tavolo in mogano dalle scure venature ciΓ² che aveva portato.
Esaminai poi il tutto da circa cinque piedi di distanza, con occhio critico e vigile. Alla fine, annuii in approvazione.

Lei scrollΓ² le spalle, come al solito lasciate scoperte dalla sua immancabile canottiera verde brillante.
Mi si rivolse, in un giocoso rimprovero.

«Si può sapere come hai fatto a dimenticare i piatti? È una cena».
Mi fece notare, divertita dalla mia poca memoria, che spesso mi era di intralcio.

Arricciai le labbra rosee in un broncio, ostentando un'irrealistica espressione di offesa. Portai una mano al petto, nel punto del grembiule in cui era ricamato un pulcino viola.
Finsi mi avesse ferita nell'orgoglio, sospirando docilmente.

Β«Che ci vuoi fare?Β» mi rassegnai. Lasciai ricadere le mani lungo le cosce, un ricciolo di labbra.

L'attenzione di Erika virΓ² verso il bancone della cucina alle mie spalle.
InarcΓ² le sopracciglia.

Β«Torta al cioccolato?Β» Mi domandΓ², deviando la poco importante conversazione.

Si avvicinΓ² all'angolo cottura con il passo pigro di un gatto.
AllungΓ² una mano pallida verso la scodella di plastica che conteneva il dolce.

Mi affrettai a placcarla, quasi scivolando sul parquet.
I miei piedi sgommarono. Riuscii a sopravvivere aggrappandomi a una maniglia della credenza. Con uno schiocco e una risata la colpii debolmente sul braccio. Sventolavo il mestolo, minacciosa.

Lei si ritrasse. Mi lanciΓ² un'occhiata truce, fulminandomi senza fare alcuna reale osservazione.

Cominciai a setacciare lo zucchero a velo, spargendolo in maniera uniforme sulla superficie del dolce.
Mi piaceva come era uscito, morbido e spugnoso.

Con la coda dell'occhio notai Erika, in piedi al mio fianco, cercare qualcosa con lo sguardo.
Mosse le sue iridi di smeraldo per la stanza, distratta.

Β«E Sebastian? Dov'Γ¨?Β» Mi chiese, spostando, picchiando una scarpa da tennis sul pavimento.
Mi aveva posto la domanda che, probabilmente, aleggiava fra i suoi pensieri sin da quando le avevo detto di farmi quel piccolo favore.

Strofinai le mani sporche per liberarle della polvere bianca. Cercai anche di ripulirle con un lembo del grembiule.
Sussultai impercettibilmente, al suono delle sue parole. Le negai il mio sguardo consapevole.
Giocherellai con i rossi e spessi guanti da forno che rendevano terribilmente goffi i miei movimenti.

«È qui».
Sbottai, alla fine, in una rigida affermazione. Percepii lo sguardo della ragazza addosso e mi voltai nuovamente. Mi rivolsi a lei, che pareva non poco perplessa.
Mi stava scrutando. Cercava di penetrare fra i turbamenti complessi della mia anima.

Posai la schiena contro il ripiano del lavello, inumidendomi le labbra con la lingua. Della farina mi si incastrΓ² in mezzo ai denti. Premetti le mie mani fra la schiena e il ripiano.

Β«Di lΓ Β» aggiunsi.
Mi strinsi come una bambina, nelle esili spalle. Liberai le mani dai guanti aiutandomi con i denti, le sprofondai nelle tasche del grembiule.

Come richiamato da una qualche divina entitΓ , il soggetto della nostra conversazione varcΓ² la soglia con una stolta pacatezza.
Il passo tranquillo.

Tuttavia Erika non si schiodΓ² dalla sua posizione di fronte a me, le gambe contro il tavolo.
Osservava intensamente, gli occhi colmi di dubbi silenziosi.

Mi trovavo fra due fuochi che non desideravo, e non potevo, osservare a lungo. CiΓ² mi metteva in una dura posizione. Non sapevo chi, fra loro, meritasse il mio esitante sguardo, chi sarebbe stato piΓΉ facile da affrontare.

La scelta, come spesso succedeva, mi fu risparmiata da chi meglio conosceva quasi ogni mio pensiero.

Β«Devo mettere i piatti?Β».
Mi domandΓ² Sebastian, con un'incerta accortezza. Si scostΓ² un ricciolo corvino dalla fronte. Mi limitai ad annuire debolmente, concedendo un assenso silenzioso.

Il suo corpo si frappose, quindi, fra me e l'impertinente sguardo verdeggiante di Erika. RitirΓ² dalla busta in plastica sul tavolo di mogano ciΓ² che gli era necessario.
Poi si dileguΓ² nuovamente. Come si dilegua svelta la nebbia, portatrice di tristezze e malinconie.

Tentai di impedirmi ogni preoccupazione che potesse riguardarlo. La consapevolezza della tensione metallica del suo sguardo, scosso da tempeste oscure come l'inchiostro, non riuscii a cancellarla.

Il suo corpo svanì oltre la porta.
Erika mostrΓ² la totale intenzione di mettermi sotto torchio.
Rimase nella stanza con me.
FrugΓ² nelle profonditΓ  della busta, praticamente vuota e afflosciata sul tavolo. TastΓ² la plastica con le dita.
Ne tirΓ² fuori una bottiglietta sigillata, piena d'acqua.

StrappΓ² il tappo rosa, posto ad indicare l'assenza di anidride carbonica.
TornΓ² a guardarmi.
«Che è successo? Non l'ho mai visto così schivo nei tuoi confronti» rigirò la bottiglia fra le mani, soprappensiero.

Scosse la testa «Non ho mai visto te così schiva nei suoi confronti» si corresse.

Esitai, incerta se un parere esterno potesse essermi utile. Bocca schiusa nell'indecisione.
Infine mugugnai, scrollando le spalle.
Decisi di evitare quell'indesiderato discorso.

Lei alzΓ² un sopracciglio.
«Sputa il rospo, non te la caverai così facilmente» mi redarguì, portando l'acqua alle labbra per berne.

Β«Credo che lui possa ricambiare i miei- sentimentiΒ». Scoppiai, allora.
Lasciai cadere, stremata, le mani lungo i fianchi, con un movimento rapido.

Vidi chiaramente i suoi occhi spalancarsi per la sorpresa.
Scossa da tosse, provocata dall'affiorare dell'acqua nei suoi polmoni, si portΓ² una mano al petto.
CercΓ² di riprendersi, dopo aver poggiato nuovamente la bottiglietta sul tavolo dietro di lei.

Schiarendosi la gola, infine, sospirΓ² sollevata e sorrise, lieta.
«Sì» mormorò pacata.
Β«Non ti ho detto niente, l'hai capito totalmente da solaΒ» si elogiΓ².
Spostai il peso da un piede all'altro, a disagio.

Β«Ma ciΓ² non toglie che, per qualche ragione a me sconosciuta, lui non voglia stare con me a tutti gli effettiΒ». Smorzai il suo entusiasmo.

Il suo sorriso si perse.
Si irrigidì, incrociando le braccia sotto il seno. Riconobbi il suo comportamento. Le rivolsi uno sguardo poco sorpreso.

«Tu invece, sì, tu lo sai» sentenziai, esponendo quella che non era propriamente una domanda.
Come ogni affermazione che popolava la mia vita.

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